Il fatto è storico, sia perché si tratta di una svolta rispetto alla tradizionale riluttanza verso un maggiore coinvolgimento politico – figuriamoci militare – sullo scacchiere internazionale, sia perché stiamo parlando della quarta potenza economica mondiale.
L’aumento delle spese per la difesa annunciato dal cancelliere tedesco Olaf Scholz sull’onda della reazione all’aggressione russa all’Ucraina comporta per quest’anno l’impegno a mettere in campo ben 100 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto ai 53 del 2021, e superare a regime la quota del 2% del Pil.
Probabilmente un altro elemento di novità è rappresentato dal fatto che a decidere queste cose sia stato un cancelliere socialdemocratico, ovvero il leader di un partito tradizionalmente tenero con la Russia, alleato, oltre che con i liberali, anche con i pacifisti verdi.
In realtà la mossa tedesca, imprevista quanto del resto per alcuni era imprevisto un attacco di Vladimir Putin, rappresenta qualcosa che va oltre l’orizzonte di Berlino. Potrebbe essere il simbolo più evidente della presa di coscienza di tutta l’Europa, e forse dell’Occidente, che purtroppo le armi e un esercito forte servono ancora.
Sì, è vero, dove passano le merci non passano gli eserciti, ne siamo ancora convinti, e nel lungo periodo in fondo rimane valido, ma non si tratta di un dogma. I nazionalismi, gli ego dei tiranni, e soprattutto le crisi economiche che mettono nell’angolo alcuni Paesi (come la Russia negli ultimi anni) sono ancora capaci di generare mostri che pensavamo sopiti, anche dietro casa.
Ci eravamo convinti che bastasse mantenere stabile la spesa militare, ma nel frattempo il resto del mondo, quello che non fa riferimento alla Nato, non rimaneva fermo. E così il peso relativo degli esborsi per la difesa in particolare dell’Europa Occidentale è gradualmente diminuito.
Era il 18,66% del totale (Medio Oriente escluso) nel 1988, prima del crollo del Muro di Berlino, era poi salito fino al 23,67% all’inizio del Millennio, ma solo a causa della diminuzione del denominatore, ovvero del calo degli investimenti in armamenti che si era avuta quando ci eravamo convinti della fine della storia, tra il 1989 e l’11 settembre.
Ma ecco che con la ripresa della tensione e della spesa militare a livello globale la quota europea occidentale era tornata a scendere, al 15,61% del 2010, e solo il parallelo incremento nordamericano aveva compensato mantenendo la leadership dell’Occidente in questo ambito.
Nel 2020, però, a calare sono state sia le fette dell’Europa che quelle di Usa e Canada. La loro somma è passata dal 69,38% al 59,11%, la più bassa dai tempi della Guerra Fredda.
A crescere era stata la quota di spese per la difesa sia dell’Europa Orientale (leggi Russia), sia soprattutto dell’Est Asia (leggi Cina).
Dati Sipri, quota della spesa per la difesa sul totale
La realtà è che se a livello di dollari investiti pro capite rimangono in testa i rappresentanti del Primo Mondo o i loro imbarazzanti alleati come i sauditi, dietro scalpitano i Paesi emergente. Di cui anche la Russia ha fatto parte per qualche tempo (chi si ricorda dei BRIC?)
Così Mosca spendeva due anni fa 422,9 dollari per abitante, poco meno dei nostri 478,2, ma l’aumento in 20 anni era stato di ben il 570,9%, contro il +36,9% dell’Italia.
E non si era trattato solo dell’effetto di una più alta inflazione o della svalutazione del rublo sul dollaro, ma anche di una crescita del Pil (sempre pro capite) decisamente più vivace, mediamente del 3,46% annuo tra il 2000 e il 2020 nel caso russo.
È aumentato ancora di più, dell’8,08%, in quello della Cina, del 4,39% in India, tra pochi anni il Paese più popoloso del mondo, del 6,95% in Azerbaigian, uno dei più emergenti tra gli emergenti, protagonista di una guerra recentissima con l’Armenia e non a caso responsabile di un incremento del 1.399,2% delle spese militari. Aumenti superiori al 200% si sono visti quasi ovunque fuori dall’Europa e del Nordamerica, anche in questo caso non solo per la svalutazione delle monete rispetto al dollaro.
Dati Sipri e Banca Mondiale
Vi è, inoltre, una coincidenza tra quei Paesi che più crescono economicamente e quelli che avevano e continuano ad avere una spesa per la difesa rispetto al Pil maggiore.
Tra quelli qui esaminati Arabia Saudita, con l’8,4% del Prodotto Interno Lordo nel 2020, Azerbaigian, 5,4%, Marocco e Russia, 4,3%, superano sia gli Usa, con il 3,7%, che il Regno Unito e la Francia, entrambi sopra il 2%, che naturalmente Italia, Spagna, Germania, tra quelli che storicamente spendono meno per gli armamenti.
E se invece del Pil il riferimento fosse il totale della spesa pubblica il divario tra Europa e Usa e mondo emergente sarebbe ancora superiore. Per esempio l’Indonesia, che pure dedica alla difesa solo lo 0,95% del Pil, risulterebbe essere più militarista di tutti i Paesi europei, l’India e la Cina supererebbero rispettivamente gli Usa e la Francia.
Il motivo è che in Asia e Africa il ruolo dello Stato nell’economia, soprattutto in termini di welfare, è minore, e di conseguenza le risorse stanziate per le armi risaltano ancora di più.
Dati Sipri e Banca Mondiale
Quindi abbiamo realtà in cui contemporaneamente cresce la spesa per la difesa in percentuale sul Pil che il Pil stesso, superando la media globale: in questo caso i fondi per acquistare jet, navi da guerra, missili aumentano in modo molto più vistoso che in Europa e Usa.
Ne abbiamo altre in cui lo stanziamento rispetto al Pil è costante, e più alto di quello dell’Occidente, ed è la sola crescita dell’economia a produrre un incremento più veloce delle risorse messe in campo per gli armamenti.
E vi è poi la Cina, che può permettersi di avere un rapporto spesa militare/Pil analogo a quello europeo (ma più alto se consideriamo il rapporto con il bilancio pubblico complessivo come abbiamo visto), perché l’estensione delle proprie entrate e l’aumento delle stesse è tale da assicurare un budget per la difesa sempre più imponente.
In sostanza lo stesso scivolamento degli equilibri mondiali che vediamo in economia verso un mondo multipolare, con nuove potenze lontane dall’Atlantico, lo vediamo anche in ambito militare.
In quello economico in parte è valido il detto per cui l’importante non è conquistare più fette ma allargare la torta. In realtà non è esattamente così neanche in quel campo, ma men che meno questo è vero nel comparto della difesa: non conta tanto quanti jet di ultima generazione hai, ma quanti ne ha l’avversario, o il nemico.
E l’aggressione della Russia all’Ucraina ci insegna qualcosa che avremmo dovuto imparare da una ventina di anni, cioè che non siamo tutti “partner”, come si dice nel gergo dei convegni internazionali, e che i tiranni esistono ancora.
Non si limitano a opprimere i propri popoli, ma fanno quello che hanno sempre fatto, cercare di aggredire i vicini, e che quindi i nemici purtroppo esistono ancora. Sono loro. E non stanno solo a 10mila km, come Kim Jong-un, o in qualche deserto e in montagne lontane, come gli sceicchi dell’Isis o i talebani, ma ai confini del mondo libero, dell’Occidente.
Come il pacifico Scholz ha capito dobbiamo essere capaci di difenderci, ne abbiamo i mezzi, e ora forse anche la volontà.