Se c’è una persona che in queste settimane di escalation e nubi di guerra ha tirato un sospiro di sollievo, al contrario del resto del mondo, quella persona è Boris Johnson. Il suo governo rischiava di cadere dopo gli scandali: non sarebbe bastato ad allungargli la vita il rimpasto, con Jacob Rees-Mogg promosso ministro per compiacere l’ala euroscettica del partito.
La crisi geopolitica in Ucraina non solo gli ha permesso di ribadire il peso internazionale del Regno Unito, «ufficiale di collegamento» con gli Stati Uniti, ma anche potenza su una linea più interventista di quella europea. Ha distratto l’opinione pubblica dai problemi di consenso e ha rattoppato una leadership al collasso.
Johnson ha cercato di incarnare la figura di un “premier di guerra”, come il suo idolo Winston Churchill. Da subito. Ha indossato metaforicamente l’elmetto quando le cancellerie erano ancora ferme alle telefonate. È stato tra i primi, se non il primo capo di Stato a volare a Kiev. Si sentiva “in trincea” già in patria, accerchiato dall’opposizione interna che voleva le sue dimissioni e a picco nei sondaggi. Così ha scelto il fronte vero. Già a fine gennaio caldeggiava una soluzione diplomatica, ma diceva chiaramente di essere pronto a inviare truppe.
Intuito politico, tempismo giusto o la solita fortuna? È come se il primo ministro stesse cercando di recuperare sul palcoscenico globale tutto il credito perso con i fallimenti domestici e le indagini sui festini negli uffici governativi. La scommessa, anche simbolica, è dimostrare che la Gran Bretagna resta decisiva per la sicurezza del continente anche se è uscita dall’Unione europea. Alcuni risultati sono stati raggiunti.
Il più banale è che del “partygate” non si parla più, o si parla di meno. Ha smesso di monopolizzare le interviste ai componenti dell’esecutivo. Non a caso, l’agenda si è riempita di bilaterali e summit all’estero. Il tour ha silenziato i dossier di politica interna. Sono occasioni nelle quali Johnson cerca di interpretare un’immagina da statista che non ha mai avuto. Aiuta avere alle spalle il peso specifico dell’ottava potenza militare al mondo.
Un altro effetto positivo – per Downing Street, ma anche per lo schieramento occidentale – è aver consolidato la “relazione speciale” con la Casa Bianca. Il premier si rende conto della dipendenza energetica dal gas russo di molti paesi dell’Unione europea, ha insistito sulle sanzioni, ha difeso la Nato offrendole un sostegno «incondizionato». Altro che la «morte cerebrale» di cui aveva parlato il presidente francese Emmanuel Macron, con cui i rapporti sono migliorati.
La sintonia con gli Stati Uniti passa anche dalla stessa valutazione del protocollo “Minsk II”, l’accordo – mai rispettato – tra Russia e Ucraina che era stato officiato da Germania e Francia, il cosiddetto «quartetto Normandia». Londra e Washington sono pentite di non aver inciso di più all’epoca, era il 2015. Ma la Germania di oggi non è quella di Angela Merkel. Olaf Scholz si gioca un pezzo di credibilità politica in una crisi che ha subìto più che gestito. Un’impressione suscitata anche dai tentennamenti sul gasdotto Nord Stream 2.
In quel caso, il cancelliere è sembrato assistere per interposta persona, quella del presidente Joe Biden, all’annuncio che l’infrastruttura sarebbe stata bloccata in caso di invasione russa. «Ogni amministrazione democratica – sentenzia una fonte del Times – esordisce dicendo che la Germania è il cuore dell’Europa e i legami vanno approfonditi, ma dura finché non scoppia la prima crisi di sicurezza». Così, si riscalda la linea telefonica con Londra. Il colloquio del 14 febbraio è durato 40 minuti, con dichiarazioni reciproche che ricordano la «bromance» del G7 in Cornovaglia.
Il tentativo è far dimenticare il disastro del ritiro dall’Afghanistan. Nel Regno Unito imparare questa lezione significa briefing ogni mattina alle otto e la piena mobilitazione del Foreign Office, il ministero degli Esteri: la scorsa estate, mentre Kabul cadeva, il titolare Dominic Raab, poi sostituito da Liz Truss, era in vacanza e lo staff lavorava da casa. Truss è stata umiliata in pubblico dall’omologo russo Sergej Lavrov, ma in privato i toni sono stati meno accesi. Ha ricordato all’uomo di Putin che una guerra costerebbe al regime caduti e che non si può ignorare la volontà dell’Ucraina, con l’adesione alla Nato auspicata nei sondaggi dalla maggioranza della popolazione rispetto al 30% del 2014.
Intanto, Boris incassa i complimenti del primo ministro canadese Justin Trudeau. Pare che citi agli altri leader aneddoti classici e precedenti storici durante le riunioni. Una metamorfosi. Johnson ha evocato l’«orlo del precipizio» in questi giorni, lui deve essersi trovato spesso. Da ministro degli Esteri di Theresa May, che poi avrebbe disarcionato, nel 2017 aveva visitato Ucraina e Russia. Aveva denunciato come «illegale» l’occupazione della Crimea e criticato il «gioco sporco» del Cremlino, sui cyber-attacchi e non solo. Era scoppiato un affaire diplomatico, l’ambasciata russa di Londra lo aveva tacciato di volere riaprire la Guerra fredda.
Oggi il primo ministro accusa Mosca di essere pronta a scatenare la «più grande guerra dal 1945». Del secondo conflitto mondiale ha scritto nella biografia “The Churchill Factor”. Al suo eroe attribuisce il merito di aver capito che il Regno Unito era ormai un piccolo, fiero «leone» in mezzo ai nuovi giganti, l’«orso» russo e l’«elefante» americano. «La speranza erano gli “Stati Uniti d’Europa”, esclusa la Russia, in cui venissero minimizzate le barriere tra nazioni e fosse possibile viaggiare senza restrizioni – scrive Johnson –. [Churchill] Avrebbe visto l’importanza di quell’Europa unita come un baluardo contro una Russia aggressiva o altre potenziali minacce esterne».
Il libro è del 2015, prima della Brexit, e si vede. Chissà se, dentro di sé, il Boris Johnson che si sente «premier di guerra» non condivide ancora quelle righe.