Un manifesto Più cibo meno food

Gli alimenti li impiattiamo, li contestiamo, li giudichiamo e (orrore!) li gettiamo. Così, per gioco, per fare spettacolo. Ma mangiare è un atto culturale, ed è questo che vogliamo raccontare

Credits Gaia Menchicchi

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.

Studio e frequento il mondo dell’enogastronomia da più di vent’anni. E in questo lungo periodo, durante il quale ho visto il cibo trasformarsi in food, per poi forse accingersi a ritornare un’altra volta cibo dopo una serie ininterrotta di rivoluzioni, ho capito soltanto una cosa: tutto quello che mediamente pensiamo di sapere su questo argomento è sbagliato. O è comunque una visione parziale di un discorso molto più ampio, molto più sfaccettato, molto più complesso.

Semplificare la realtà non fa altro che banalizzarla: e riuscire a spiegare davvero che cosa c’è dietro quella passata di pomodoro del supermercato o quella scelta strategica di una guida è esercizio culturale complicato e lungo. Ma siccome nessuno, a parte noi addetti ai lavori che ce ne occupiamo compulsivamente, ha davvero del tempo da dedicare a questo tema, ogni messaggio efficace subito diventa realtà imperante, specie qualora sia ammantato di una qualsivoglia narrazione green o passatista.

Il lievito madre e i grani antichi, la carne non carne e l’agricoltura biologica, il vino naturale e i cibi senza olio di palma, il km zero e l’italianità a tutti i costi. Puri slogan di propaganda che sono un perfetto combustibile da social network, pur essendo, nella maggior parte dei casi, solo delle fake news ben orchestrate. Bisognerebbe partire proprio dalle scelte lessicali.

Preferire il termine “cibo” al termine “food”, per me, equivale a smettere di parlare di un fenomeno di moda e di puro entertainment per provare a riportarlo al suo significato più autentico. Provare a spiegare le tendenze e gli slogan, dando loro un contesto e parlandone in una struttura di senso ci porterà a capire meglio che cosa mangiamo, perché lo mangiamo e soprattutto per colpa (o merito!) di chi lo mangiamo.

Perché mangiare è un atto culturale: fin dalla scelta di che cosa usiamo per nutrirci, passando per la sua produzione e arrivando fino alla cucina, che fa da tramite tra noi e la natura. Ludwig Feuerbach scrive «l’uomo è ciò che mangia», sostenendo che esista un’unità inscindibile fra psiche e corpo: per pensare meglio dobbiamo alimentarci meglio.

Massimo Montanari, uno dei più grandi storici dell’alimentazione del nostro Paese, ribalta quella frase e sostiene che mangiamo quello che siamo, ovvero che mettiamo nel cibo che produciamo e cuciniamo la nostra cultura, il nostro saper fare, la nostra evoluzione tecnologica e sociale. Io, più semplicemente e più “fisicamente”, sottolineo sempre che quello che mangiamo diventa noi. Non entra solo nel nostro corpo per poi transitare al suo interno, ma ne diventa parte integrante. Pensiamoci bene, ogni volta che decidiamo di farci del male con cibo cattivo, cucinato male o non etico.

Ma quand’è che il cibo è diventato food? Quando il cibo era solo cibo, Mario Soldati, il primo vero grande divulgatore enogastronomico italiano, lo raccontava con indimenticabili pezzi di bravura, con tanto contenuto e poco spettacolo, in cui il protagonista era il prodotto e non il conduttore dello show.

Forse un po’ lento, per noi spettatori contemporanei, forse un po’ troppo didascalico, ma sicuramente efficace e puntuale, di servizio, e davvero in grado di spiegarci gli ingredienti, il territorio, il lavoro e la sapienza artigianale. Negli ultimi anni, con il cibo diventato food, siamo invece arrivati al momento della massima spettacolarizzazione di questo tema, che in televisione ha raggiunto il suo apice con programmi come “Masterchef” o simili.

Il cibo lo impiattiamo, lo annusiamo, lo contestiamo, lo giudichiamo e – orrore! – lo gettiamo. Così, per fare spettacolo. Per gioco. Questa strada è quella giusta? Secondo me, no. Usare il cibo come divertimento fine a se stesso, buttarlo per dimostrarsi critici competenti è un’aberrazione rispetto al suo significato più alto e importante. Il cibo è nutrimento e come tale va rispettato e trattato. Ricordando sempre che, anche al netto delle retoriche piagnucolose, quello che per noi è un gioco, per molta parte del mondo è comunque bisogno quotidiano, spesso non soddisfatto.

«Viaggiare è conoscere luoghi, genti e paesi. […] E qual è il modo più semplice e più elementare di viaggiare? Mangiare e praticare la cucina di un Paese dove si viaggia. Nella cucina c’è tutto, la natura del luogo, il clima, quindi l’agricoltura, la pastorizia, la caccia, la pesca. E nel modo di cucinare c’è la storia, la civiltà di un popolo. L’uomo come ha avuto la prima idea di viaggiare? Ma l’ha avuta molto probabilmente mentre lui stava fermo e guardava qualcosa che si muoveva, che viaggiava, che andava, per esempio le nuvole del cielo, gli uccelli che migrano, un fiume che scorreva».

Queste parole sono proprio di Mario Soldati, che, a partire dal 3 dicembre 1957, ha costruito la narrativa culinaria di viaggio italiana con il suo “Viaggio nelle valli del Po” trasmesso dalla Rai: se, forse contagiati dal food, possiamo usare anche noi una brutta parola, Soldati ha creato lo storytelling sul cibo da scoprire viaggiando: nel suo documentario raccontato, lo scrittore dà vita a un modo controcorrente di divulgare le tradizioni delle cucine regionali, dando lustro ai cotechini e al Parmigiano Reggiano, al riso e ai pesci di fiume, e rivelando alla nazione intera quanto questo suo angolo avesse da dare dal punto di vista paesaggistico e culinario.

La cucina e il territorio, negli anni successivi, non sono più andati molto d’accordo, e tutte le trasmissioni venute dopo sono state spesso puro intrattenimento e zero racconto, tanta costruzione autoriale e pochissima spontaneità di personaggi imbrigliati in un ruolo-caricatura che non era loro.

Fino al 2021, quando è arrivato “Dinner Club” e siamo forse giunti alla svolta. Per svoltare, peraltro, questa trasmissione inizia a raccontare l’Italia contemporanea proprio dal grande fiume, quasi come se ci fosse un fil rouge da riprendere, quasi come se quello che è successo nel frattempo fosse stato soltanto un incidente di percorso e servisse il coraggio di guardare indietro per riportarci a un oggi in cui al centro della narrazione tornino a esserci la cucina autentica, le storie delle tradizioni e delle famiglie, di chi alleva ostriche sul Po, di chi riscopre il quinto quarto in Puglia o di chi mantiene la ricetta per dei cannoli perfetti in Sicilia.

Finalmente gli chef che Cracco va a trovare con i suoi compagni di avventura cucinano, spiegano, dialogano e sembrano persone straordinariamente normali, che fanno un lavoro che amano e che vogliono condividere con noi. Che sia la volta buona per riportare la narrazione del food a quella del cibo? Che sia la prima piccola goccia che ci porterà a conoscere davvero l’enorme patrimonio enogastronomico italiano?

Noi vogliamo essere parte attiva di questa rivoluzione del linguaggio, essere i portavoce di questa nuova era della cucina italiana contemporanea. Che spiega e non dà per scontato, che narra e non millanta, che capisce e non immagina. E che riporta il food al suo significato originario.

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