Juan Luis Guerra – “Ojalà Que Llueva Cafè”, 1989
È calata la notte, sullo stadio Olimpico Felix Sànchez. Abituato a cento sere così, seduto in mezzo a un prato di fronte a un palco, il cielo sulla testa e gente tutt’intorno, non suona così strano. Ma in tutti i ragazzi, e nelle moltissime ragazze a destra e sinistra, c’è una strana atmosfera. ’Crees che podemos levantarse?’, ci si potrà alzare?, mi chiede una ragazza di fianco, si e no 16 anni, ’non siamo abituati a questi concerti, è la prima volta in uno stadio’. Sorrido e la capisco, le prime volte sono sempre un’esperienza nuova.
È una notte di dicembre ’90 a Santo Domingo, e siamo tutti in attesa della band in quel momento numero uno, Juan Luis Guerra Y Los 440. I musicisti sanno che 440 è il LA del diapason su cui si accordano gli strumenti, è stato un amico a battezzarli così, ironia e ammirazione insieme per l’ossessione -di quello che era ancora un quartetto vocale- per una intonazione perfetta.
Dopo tre album di limitato successo e l’abbandono di una cantante solista, Juan Luis ha preso in mano lui la guida, e i cuatro cuarenta sono diventati i coristi (Marco Hernández, Adalgiza Pantaleón e Roger Zayas sono gli originali, i primi due sono ancora con lui), nel giro di poco 440 diventerà solo una sigla affiancata al suo nome.
Quando l’attesa termina, e sul grande palco sale tutta la band, e sembrano tanti, esplode il suono, il movimento e, sì, la gente si alza, prima timidamente guardandosi intorno poi decisa, come diavolo fai a sentire seduto un concerto di merengue, la musica più frenetica uscita da tutte le mezclas caribeñe?
Questo è stato il mio impatto con la musica di Juan Luis Guerra, durante un viaggio fatto per vedere di persona il possibile cast per il Festival Caraibi&Caribe che si sarebbe tenuto a Roma nell’estate successiva. Capita spesso di andare in paesi lontani e scoprire superstar locali pressochè sconosciute in Italia. Lo sarebbero rimasti per poco, peraltro, perché nel giro di due anni –’89 e ’90- JLG si affaccia sul palcoscenico mondiale con due album “Ojalà Que Llueva Cafè” e “Bachata Rosa”- che venderanno vagonate di 33 e 45 e raccoglieranno Grammy e premi di ogni tipo. Trasformando questo ragazzone alto e dinoccolato, barba e sorriso contagioso, riservato ed estremamente professionale, nel musicista più rispettato e acclamato della musica latino-americana caraibica a cavallo del nuovo millennio.
Siamo nella Repubblica Dominicana, la metà orientale (la metà occidentale è occupata da Haiti) della prima isola su cui sbarcò Colombo, chiamata allora Hispaniola. Capitale Santo Domingo, sport nazionali baseball e merengue, vissuti -in una nazione piuttosto povera- come maniera di sfuggire alle proprie condizioni economiche.
Figlio di buona famiglia, il padre buon giocatore di baseball e pallacanestro, Guerra studia filosofia e letteratura all’Università, poi chitarra e teoria musicale al Conservatorio Nazionale, ma su suggerimento del suo insegnante gli studi li finisce al prestigioso Berklee College of Music a Boston. Vuole imparare a suonare bene la chitarra, come i suoi idoli Wes Montgomery e soprattutto Pat Metheny. In una bella e lunga intervista di Mark Small per il sito Berklee.com, ricorda come suonasse degli assolo che gli sembravano ben fatti, ma nessuno se ne accorgeva. Poi, un giorno prende in mano una guira, strumento percussivo dominicano, e tutti si girano: «volevano sapere cosa facessi, uno studente mi ha chiesto addirittura di metter giù lo spartito di quello che stavo suonando. Mi è sembrato strano, noi non seguiamo spartiti. Però la cosa ha avuto un impatto su di me, ho capito che avrei fatto meglio a cantare e suonare seguendo i ritmi folklorici del mio paese». Si diploma in composizione jazz nel 1982 e torna in patria, fa un primo disco mischiando pop e jazz, poi firma con la Karen e comincia a trovare la sua formula, merengue declinati in maniera nuova.
Il merengue, dal 2016 nella lista dei Patrimoni Culturali Intangibili dell’Umanità dell’Unesco, nasce verso la metà dell’800 nella zona rurale montagnosa dell’isola, il Cibao, per poi diventare popolare anche nelle zone urbane. All’inizio è suonato da tres e cuatro, strumenti a corda, ma quando i mercanti tedeschi introducono sull’isola la fisarmonica questa diventa lo strumento principale, lo è ancora oggi nella sua versione classica.
Nel tempo, però, al suo frenetico ritmo di due quarti viene aggiunta la percussione affidata alla guira, sorta di cilindro di metallo tipo mega-grattugia spazzolata a tempo, e la tambora (tamburo che si tiene in grembo e si suona da entrambi i lati), il pianoforte e i fiati: influenzati da quelli della salsa sono in genere trombe, a volte sax e trombone. Il basso elettrico accompagna il groove sottostante, il piano (acustico o elettrico) sottolinea la melodia e i fiati non sono continui, ma brevi e squillanti riff che contrappuntano le parti vocali. Insieme a tutto questo, la guira, la tambora (suonata a mano o con una bacchetta) e le congas (più, a volte, anche una cassa) creano la dinamica infuocata che accompagna la musica.
Si dice che il merengue abbia in sé tre culture diverse: la guira di origina Taina, le congas africane e la melodia delle chitarre spagnole. Le parti vocali, che in JLG&440 sono particolarmente curate, rimbalzano fra il solista e i coristi in stile africano di chiamata-e-risposta. Certo, ormai nei tour di fronte a folle oceaniche JLG Y 4.40 sul palco son 16 + 3 coristi, ma la formazione base è quella.
L’età dell’oro del merengue nasce a partire dal 1930 sotto il trentennio del dittatore Rafael Trujillo, di origine contadina, che vede in questa musica un simbolo popolare di espressione nazionale. Lo usa persino nei suoi discorsi e nei suoi comizi nell’isola; quando nel 1961 viene assassinato, e comincia la migrazione all’estero di tanti dominicani, nei barrios delle grandi città nordamericane la musica comincia a diffondersi e a farsi sentire dentro e fuori dei loro ambienti. JLG non è la prima supersar merenguera, prima di lui conquistano il proscenio Francisco Ulloa, Johnny Ventura, Sergio Vargas, il trio femminile delle Las Chicas del Can, Wilfrido Vargas; senza dimenticare che dominicano è anche Johnny Pacheco, il co-fondatore dell’etichetta Fania Records, casa newyorkese della salsa.
L’approccio di JLG al merengue, dato il suo background, è da musicista colto e allo stesso estremamente eclettico. Il suo intento è quello di riprendere questa musica popolarissima sull’isola e di trasformarla in qualcosa di più raffinato e arricchita da altre influenze, sia caraibiche che nordamericane che africane.
Il suo amore per gli amatissimi Beatles e per il jazz vocale, Manhattan Transfer in testa, lo spinge a creare delle armonie vocali complesse. Inoltre, il suo interesse per la storia musicale afro-latina gli fa incorporare nel suono anche le radici native pre-colombiane e quelle africane, soprattutto percussive. Infine, uno sguardo sulla musica contemporanea degli anni 80 e 90 caraibica gli fa incorporare altri generi popolari del periodo come salsa e soca. Aggiungi ancora qualche spruzzo di rock, pop, gospel, jazz, e la mezcla è completa: «Nel nostro tornare alle radici suonavamo una musica che sembrava sofisticata, elitaria, ma che volevamo fosse piacevole per chiunque, che sembrasse assolutamente naturale e intuitiva». Nella dichiarazione di un collaboratore raccolta dalla Rough Guide, »se guardi nel bagaglio di Juan Luis trovi nastri dell’Africa occidentale, soukous congolese, musica sud-africana, indiana, corale sudafricana, son cubano, e ovviamente salsa».
Nell’intervista a Small, JLG cita molti altri artisti che ama ascoltare: «Mi piace molto Steve Reich e il suo “Music for 18 Musicians”. Altri compositori classici sono il cubano Leo Brewer, il brasiliano Villa Lobos, lo spagnolo Joachim Rodrigo. Uno dei miei pezzi preferiti, di cui ho comprato lo spartito per due chitarre, è ’Pictures at an Exhibion’ di Modest Mussorgsky (ai tempi grande hit, se così si può dire, degli Emerson Lake and Palmer). Ho ascoltato anche i dischi blues di Freddy King e Stevie Ray Vaughan, e del giovane Johnny Lang. Ascolto anche molto jazz: chitarristi come Mike Stern, Ralph Towner ed Egberto Gismondi, che è anche un ottimo pianista. E poi, la Settima Sinfonia di Beethoven: ascoltandola, mi sono chiesto come una cosa così meravigliosa potesse venire in mente a un uomo. Credo sia celestiale. Un giorno mi piacerebbe scrivere qualcosa di sinfonico e scrivere tutte le orchestrazioni di mio pugno. Se dovessi dare un consiglio ad aspiranti musicisti, direi loro di ascoltare i musicisti migliori, ma che se vuoi fare dei dischi devi avere originalità. Penso a The Edge degli U2, che non è un virtuoso ma ha molta originalità. Se vuoi dare un contributo alla musica non devi essere un virtuoso, la chiave è trovare qualcosa di diverso».
E, infine, la bachata, insignita anch’essa di Patrimonio Intangibile da parte dell’Unesco, ricupero di un altro genere dominicano che era finito nel dimenticatoio: considerata dalle elite come una musica per la classe operaia e per i poveri, identificata con il sottosviluppo rurale e la criminalità, caduta quasi in disuso e da lui riportata in cime alle classifiche dopo averle dato nuova dignità. Il genere nasce dopo la morte di Trujillo e la caduta della censura, perchè la amergue, come si chiamava allora (’ musica amara’, ’musica blues’) era considerata una musica scandalosa per la sua sensualità, troppo volgare e cruda per essere trasmessa in radio o in televisione.
Il primo brano famoso, ’Borracho de Amor’, ubriaco di amore, è del 1962, e le sue origini sono una mezcla già in partenza: una fusione fra lo stile melodioso e sentimentale pan-latino del bolero con il son cubano ed elementi ritmici nativi. Rimane illegale per alcune decine di anni, proibito ascoltarla o danzarla da parte della buona società ma, sempre più popolare, a poco a poco penetra nei media e dagli anni 80 diventa pervasiva, fondendosi anche in alcune correnti con il merengue. All’inizio degli anni 90, trasformata in pop-bachata, arriva in classifica per merito di artisti come Wilfrido Vargas e Anthony Santos. Con il suo album del 1992 “Bachata Rosa” JLG la renderà definitivamente una musica accettabile e di successo, sicuramente più patinata, anche se la sua ha un suono più vicino al bolero, ed è suonata con ritmiche molto più ricche.
Tornando a Juan Luis, la sua ricerca musicale, accessibile e sofisticata insieme, procede di pari passo con l’ultimo, importante tassello: la qualità dei testi. Cresciuto con le letture del poeta cileno Pablo Neruda, dello spagnolo Federico Garcia Lorca e del peruano César Vallejo, Guerra pone nei testi una cura particolare, mischiando canzoni d’amore, mai banali, con dei commentari sociali particolarmente poetici. Ascoltando il salsero Rubén Blades, capisce che la musica può essere usata per parlare di tutto, soprattutto delle cose che riguardano la vita delle classi meno abbienti.
In questo senso il miglior esempio è la title-track del suo quarto album, “Ojalà Que Llueva Cafè”, un salto quantico rispetto ai precedenti e quello dell’affermazione definitiva, diventata nel tempo uno dei classici suoi, della Repubblica Dominicana e di tutto il continente americano. Una metafora per le difficili condizioni economiche di una parte della popolazione e di un sogno –di ’magico realismo’, è stato definito- per coloro che hanno il problema quotidiano di mettere il pane sotto i denti. Lo spunto, racconta in un’intervista a wbur.org, gli viene dall’incontro con un 80enne danzatore di merengue nel villaggio Santiago de Los Caballeros che gli fa vedere alcune poesie che ha scritto, fra cui una che parla della speranza che piovesse caffè. Lui ne sviluppa la metafora in modo estremamente poetico, su un ritmo di merencumbia (un merengue meno veloce), con l’aiuto del coro di bambini Retoños. Il video verrà votato come il migliore dominicano di sempre:
«Vorrei che piovesse caffè sulla campagna
Che facesse un acquazzone di manioca e tè
Dal cielo una spolverata di formaggio bianco
E al sud, una montagna di crescione e miele
Oh, vorrei che piovesse caffè
Vorrei che piovesse caffè sulla campagna
Pettinare un alto promontorio di grano e agave
Scendere per una collina di riso sgranato
E continuare ad arare il campo col tuo affetto
Vorrei che l’autunno, invece di foglie secche,
Coprisse il mio raccolto di più sale
Seminare una pianura di patate dolci e fragole
Vorrei che piovesse caffè
Così che nei campi non si soffra tanto,
Vorrei che piovesse caffè sulla campagna
Così che a Villa Vásquez sentano questa canzone
Così che i ragazzi cantino nei campi
Così che a Los Montones sentano questa canzone
Così che a La Romana sentano questa canzone
Vorrei che piovesse caffè»
Come scrive Mariano Prunes su All Music, «questo album può esser considerato responsabile di aver introdotto la sfrenata esultanza del merengue e la bachata al mondo. In questo senso, dovrebbe essere considerato con la stessa stima di “Siembra” di Rubèn Blades, o “Catch a Fire” di Bob Marley. È interessante che, come è successo con Blades e Marley per la salsa e il reggae, il suo approccio alla musica dominicana non è quello di un purista: quello che rende la sua musica così speciale è la sua abilità nell’approcciare i ritmi di danza tradizionali con arrangiamenti moderni e innovativi, e testi che trattano di relazioni romantiche e di festa, di spiritualità, di tematiche sociali e politiche».
La direzione musicale scelta da JLG si sviluppa nei tre album incisi fra l’89 e il ’92 con una logica progressiva: in “Ojalà Que Lluega Cafè” l’accento è soprattutto sul merengue, e crea un’attenzione per la musica latino/caraibica che languiva dal boom della salsa nel decennio precedente. In “Bachata Rosa”, come sottolinea il titolo, buona parte dei brani sono di bachata: è l’album più venduto di musica latino-americana di quell’anno, diventa un successo di tale proporzioni che si ritiene ce ne sia uno in ogni famiglia di lingua spagnola, un po’ come “Thriller” negli USA. Il terzo, “Areito”, parola coniata dai conquistadores spagnoli per descrivere la ritualità attraverso cui i Taino, gli indiani nativi dei Caraibi, celebravano i loro antenati e che venivano arricchite da musica e coreografie, l’accento si sposta più sui ritmi africani che nei secoli passati hanno contribuito, fondendosi con la tradizione spagnola, a creare le prime forme di quello che diventerà il merengue. Due brani sono cantati in Arawak, la lingua taina originale, ’El Costo de la Vida’ è un altro merengue dal contenuto sociale, con evidenti influenze di soukous africano.
In tutti e tre, i brani romantici di bachata -per il pubblico latinoamericano il romanticismo, i sentimenti amorosi sono più rilevanti che nella musica anglo-americana- si alternano a quelli con un’impronta attenta alla povertà, al sottosviluppo, alla voglia di riscatto sociale. In questo senso, “Ojalà Que Lluega Cafè” contiene un altro brano che è fra i più famosi di JLG: insieme, rimangono due capolavori poetici di come attraverso le canzoni si possano toccare temi che raccontano un popolo meglio di tanti libri e articoli. ’Visa Para Un Sueño’ (usato con grande effetto in ’Caro Diario’ di Moretti), che apre l’album col suo frenetico ritmo merengue, e descrive con empatia e dono del dettaglio le aspirazioni spesso insoddisfatte di coloro che cercano un visto per gli Stati Uniti, insieme fuga e speranza in un futuro migliore:
«Erano le cinque del mattino
Un seminarista, un lavoratore
Con mille carte di solvibilità
Che non gli danno per essere onesti
Erano le sette del mattino
Uno per uno in fila al macello
Dove ognuno ha il suo prezzo
Alla ricerca di un visto per un sogno
Il sole brucia le budella, phew!
Una forma di consolazione
Con una foto di due per quattro
Che si scioglie nel silenzio
Erano le nove del mattino
Santo Domingo, 8 gennaio
Con la pazienza che si esaurisce
Perchè non c’è più il visto per un sogno.
Alla ricerca di visto per un sogno
Alla ricerca di un visto, la ragione per essere
Alla ricerca di un visto per non tornare
Alla ricerca di visto per un sogno».
È l’archetipo di altri merengue degli album successivi in cui la frenesia si intreccerà con il commentario sociale, e questo ci fa capire come testi duri possano -in musiche che fanno dell’energia e del ritmo la loro ossatura- coincidere con suoni che abitualmente uno pensa siano solo di ballo o di festa.
Il resto dell’album scorre veloce, con altri merengue con quel ritmo veloce e i fiati che entrano come lampi istantanei di contrappunto, ’La Gallera’, ’Reina Mia’, ’Woman del Callao’ (con chitarra elettrica bella funky) e brani di salsa come ’Razones’ nel quale al piano c’è il celebre pianista cubano Gonzalo Rubalcaba. ’De Tu Boca’ è un’anticipazione dell’Lp successivo, che affonderà a piene mani nelle melodie della bachata, che qui è ancora suonata a ritmo più veloce.
Una parola la merita la conclusiva ’Angel Para Una Tambora’, altra merencumbia dedicata al percussionista e tamborista Angel Miro Andùjar, parte del gruppo per il tour venezuelano antecedente all’Lp, morto nell’incidente stradale del bus su cui viaggiavano tutti i musicisti. JLG cade in una profonda depressione, ed è il patron della Karen a convincerlo che la maniera migliore di onorarlo è quella di continuare col disco e l’attività dal vivo. Il brano è di una dolcezza infinita, giocato su cori angelici che toccano il cuore:
«Laggiù nello stato di Zulia
Nella parte settentrionale del Venezuela
le ali sono nate al mio tambora
E ora vola…
Attraverso le Ande, i miei sogni di tambora
Non muore mai, ehi, mia tambora
Un angelo suona, si veste da tambora
Nell’entroterra con il bicchiere
Mille stelle formano la tua corona
Non muore mai, ehi, mia tambora».
Perchè va detto che, se la ricerca musicale è interessante e i testi sono significativi, il successo dell’album e di tutta la carriera ormai trentennale di Juan Luis Guerra ha un segreto facile da cogliere: un dono melodico straordinario, una capacità rara di creare melodie assolutamente memorabili, lo certifica una lunga stringa di Lp e di 45 che arrivano regolarmente in testa alle classifiche, orecchiabilissimi e mai banali, un po’ come i suoi maestri liverpooliani.
“Bachata Rosa”, l’album successivo, sarà quello che decreterà il successo mondiale: le due facciate sono aperte e chiuse da merengue diventati classici come ’La Billirubina’, ’Rosalia’, ’A Pedir su Mano’ e ’Acompagname Civil’ (una critica alla corruzione della polizia), e appaiono anche alcune bachata che sono fra le canzoni latine più popolari di sempre: ’Burbujas De Amor’, ’Estrellitas Y Duendes’, ’Bachata Rosa’. Non può mancare anche una salsa, ’Carta de Amor’. Hanno tutte melodie di orecchiabilità suprema, non sorprendono i cinque milioni di copie, il numero uno sia in patria che nella Tropical Latin Charts americane di Billboard (per 24 settimane!), il Grammy come miglior album Tropical Latin, miglior 45 con ’Burbujas de Amor’ e Video dell’Anno, più Gruppo dell’Anno. Non manca nulla, davvero.
Un trionfo che porta merengue e bachata all’attenzione dei palcoscenici mondiali, e fa di Juan Luis una superstar assoluta. Da allora, una decina di album (uno dei quali, “Para Ti”, di ispirazione religiosa) e innumerevoli singoli ne hanno solo confermato la sostanza e la qualità. Ma forse la cosa che conta di più, è il sentimento di orgoglio e di identità che la musica di Guerra evoca nella comunità latina sparsa per il mondo, un orgoglio di appartenenza transnazionale che tocca le corde più profonde di milioni di persone e che li fa camminare a dieci centimetri da terra.
Se avete voglia di muovervi un poco e volete immergervi nell’esperienza di un concerto intero, direi che questo del 2000 da Viña del Mar in Chile sia perfetto.