Una vera bufala Fare la mozzarella Dop è una cosa seria

Il Consorzio di tutela ha fondato in Campania una scuola di formazione per casari che accoglie studenti perfino dal Kazakistan e offre ottime prospettive occupazionali

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Ci si sveglia presto, si riceve il latte, si lavora alla cagliata, si “mozza” la pasta filata e si procede al confezionamento e allo smaltimento dei residui della lavorazione e del siero. E poi si ricomincia, sempre a contatto con la materia prima viva che arriva dagli allevamenti. È un lavoro antico, artigianale, che ha bisogno di una formazione sul campo e che oggi viene svolto con tecniche e preparazione contemporanee.

Perché il casaro è un mestiere che si impara solo facendolo, a stretto contatto con i maestri che hanno a loro volta imparato dai “vecchi”. E che oggi ha comunque bisogno di una formazione speciale. Per questo il Consorzio di Tutela Mozzarella di Bufala Campana Dop pone la formazione dei giovani al centro della sua visione per il futuro, tanto da aver voluto la nascita di una Scuola di formazione, fondata dal Consorzio nel 2017.

La scuola, riconosciuta dalla Regione Campania, è l’unica in Italia gestita direttamente da un Consorzio di Tutela, attraverso la società Mbc service srl e ha sede  – per la parte teorica – nelle splendide strutture delle Regie Cavallerizze della Reggia di Caserta. La parte pratica degli insegnamenti si tiene invece nell’azienda agricola sperimentale regionale “Improsta” di Eboli, che si estende su una superfice di 140 ettari, è dotata di un caseificio didattico e ha al suo interno una delle più antiche “bufalare”, risalente al 1.600, dove un tempo avvenivano la mungitura e la produzione delle mozzarelle.

Il metodo formativo è basato sul giusto equilibrio di teoria e di pratica, a cui si aggiunge un’intensa attività di stage in aziende convenzionate e la partecipazione agli eventi che vedono il Consorzio come partner. L’amministratore Marco Nobis spiega come il primo corso a partire sia stato proprio quello per casaro, giunto alla quinta edizione: «Nove su dieci tra i ragazzi che hanno seguito i nostri corsi hanno trovato un impiego. C’è una richiesta molto alta per queste figure professionali, anche in relazione alla crescita del prodotto, che viene destinato anche all’esportazione».

Sono cinquecento ore di formazione per diventare un operatore certificato delle lavorazioni lattiero casearie: le lezioni hanno attirato alunni da tutto il mondo, dall’Australia alla Bolivia, passando per gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Kirghizistan. Alla fine dei corsi, i giovani casari sono pronti per entrare nel mondo del lavoro, come dipendenti o aprendo un’attività in proprio. «Va anche ricordato che il 20 per cento dei nostri studenti sono donne: un risultato fino a poco fa impossibile, come era inimmaginabile vedere una donna occuparsi di un caseificio».

È una conquista notevole, che va ad affiancarsi al successo riscosso dalla scuola. «In poco tempo sono iniziate ad arrivare richieste anche per la formazione di altre figure professionali», spiega il dottor Nobis. «Abbiamo così predisposto altri moduli didattici, che riguardano la parte allevatoriale, con corsi che insegnano il benessere animale, dalla gestione della stalla alla mungitura, la biosicurezza, con focus sulla prolassi veterinaria e l’autocontrollo, e le energie rinnovabili; oltre a moduli dedicati all’industria, dalla comunicazione e marketing alla contrattualistica internazionale. Si tratta di corsi di formazione post maturità ad alto profilo, tenuti da docenti universitari, che aprono grandi possibilità nel mondo del lavoro, creando profili professionali molto richiesti, poiché tutti gli anelli della filiera hanno bisogno di approfondimenti per un approccio moderno al mercato. La richiesta all’interno è elevatissima, ma collaboriamo anche con altri consorzi: a Lodi esiste una scuola lattiero casearia generica, ma noi siamo l’unica scuola specifica di filiera».

Ed è una scuola che ha riempito un gap sicuramente sentito nel Mezzogiorno: è un esempio virtuoso in un momento in cui fin troppo spesso si sente parlare di Sud in affanno ed è un simbolo di dinamismo e di voglia di innovazione in un settore in cui il 32 per cento degli 11mila addetti è under 32.

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