Non è solo il Blitzkrieg di Vladimir Putin contro l’Ucraina a essere sfumato. Nemmeno quello dell’Occidente verso l’economia russa sembra aver funzionato come da programma. È stato lo stesso Putin ad affermarlo in un’apparizione pubblica al fianco dell’amico e presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko. Ma se delle parole di Putin si può a ragione dubitare, è l’andamento del rublo la vera prova del nove: dopo aver toccato i minimi storici alla fine di febbraio, oggi la valuta russa è tornata né più né meno sui livelli pre-guerra.
Un segnale chiaro che le sanzioni comminate nell’ultimo mese e mezzo a suon di pacchetti non sono state sufficienti.
L’obiettivo primario delle sanzioni occidentali era evidente: attaccare il sistema finanziario russo, innescando la caduta del rublo e una fiammata inflazionistica. È stato il presidente Mario Draghi, si dice, a indicare quella che avrebbe dovuto essere «l’arma nucleare»: il congelamento delle riserve valutarie russe detenute all’estero – circa 300 miliardi di dollari su un totale di 640 – per impedire alla Banca centrale russa di correre in soccorso del rublo.
Una mossa che ha costretto la governatrice Elvira Nabiullina ad alzare i tassi di interesse dal 9,5% al 20% in un colpo solo. E che, almeno all’inizio, ha prodotto gli effetti sperati: la moneta russa era diventata poco più che un foglio di carta e l’inflazione era schizzata a livelli record dal 2015.
Oggi la musica è già cambiata. Secondo le stime delle autorità russe, la scorsa settimana la crescita dei prezzi è risultata meno della metà di quella di un mese fa. Tanto che la Banca centrale ha deciso di iniziare a tagliare i tassi di interesse, a sole cinque settimane da quando li aveva alzati. E il rublo ha recuperato il terreno perduto. Com’è dunque possibile che in poco più di un mese la Russia sia riuscita a disinnescare l’ordigno finanziario predisposto da Stati Uniti e Unione europea?
La priorità per Mosca era difendere la moneta. Dato che il rublo – come ogni altro bene – aumenta il suo valore se sale la domanda, l’unica manovra possibile era creare questa domanda artificialmente. E così il Cremlino ha imposto alle aziende russe esportatrici di convertire immediatamente l’80% dei loro introiti in rubli. E sta anche tentando di costringere i paesi occidentali a pagare in rubli il gas e il petrolio, minacciandoli di rifiutare altre valute. Un annuncio che aveva subito rinfrancato la moneta russa sui mercati internazionali, benché l’effettiva attuazione sia ancora lontana. E se un mese fa il cambio con il dollaro era di 1 a 130, oggi il rublo si scambia per 80 dollari.
Certo, si tratta di un tasso di cambio notevolmente gonfiato. I segnali che arrivano dal mercato nero suggeriscono che il suo valore effettivo sia molto inferiore, forse addirittura la metà. Ma crea quantomeno l’illusione della stabilità, quando nel sistema finanziario la stabilità è tutto. E neutralizza, almeno nel breve periodo, “l’arma nucleare” a disposizione dell’Occidente, ovvero il congelamento delle riserve.
Tanto più che, grazie a una deroga concessa dal Tesoro americano, nel primo mese e mezzo di guerra Mosca ha potuto attingere alle riserve in dollari, in teoria bloccate, per ripagare gli interessi sul proprio debito sovrano agli investitori americani. Evitando così il default tecnico, almeno fino alla scorsa settimana, quando gli Stati Uniti hanno deciso di porre rimedio sigillando effettivamente le riserve.
Quanto alle altre sanzioni, non sono certo sufficienti per piegare l’economia russa. Servono a prendere le distanze dai massacri, a distinguere i buoni dai cattivi, ma non colpiscono il motore economico di Mosca: le materie prime energetiche, ovvero gas naturale e petrolio. E alla riluttanza dei governi europei fanno seguito ingenti entrate per la Russia. Entrate che, grazie anche all’effetto guerra, sono persino aumentate rispetto a un anno fa: secondo Bloomberg, Mosca incasserà nel 2022 ben 321 miliardi dalle esportazioni di energia, in crescita di un terzo rispetto al 2021 a causa dell’impennata dei prezzi.
Guardando poi ai divieti alle importazioni di prodotti ad alta tecnologia e prodotti di lusso, il blocco colpisce al massimo il 12% del totale delle importazioni russe, come stima l’Ispi. Mentre le esportazioni russe si contrarranno al più del 7% rispetto ai livelli pre-invasione.
Ma c’è di più: l’efficacia delle sanzioni economiche dipende non solo dalla loro intensità, ma anche dalla possibilità di aggirarle. Oggi soltanto una fetta degli Stati del mondo ha deciso di imporre sanzioni alla Russia.
È vero che questi Paesi rappresentano il 59% del Pil globale secondo i dati della Banca mondiale. Ma l’assenza di una condanna unanime lascia Mosca libera di estendere la propria rete commerciale ai paesi che non l’hanno multata, e che rappresentano il restante 41% dell’economia mondiale. E così può accadere che i prodotti russi vengano semplicemente dirottati altrove, in Cina per esempio. Come si sta già verificando per il petrolio, seppur venduto a un prezzo ribassato.
Beninteso, la Banca mondiale prevede una forte recessione per la Russia, con un calo del Pil dell’11,2% entro la fine dell’anno. Tantissimo, ma forse non il tracollo a tutto campo in cui Stati Uniti e Unione europea confidavano.
Sicuramente le sanzioni contro la Russia rappresentano un caso eccezionale di mobilitazione da parte dei Paesi occidentali, soprattutto perché rivolte a un Paese profondamente intrecciato al sistema economico globale (in particolare europeo). Ciononostante, a sette settimane dall’invasione dell’Ucraina, il loro valore resta perlopiù simbolico e politico. E viene da chiedersi se l’Occidente abbia mai davvero voluto che questo valore cambiasse.