La rivincita di Sinn FéinLa vittoria degli indipendentisti in Irlanda del Nord sarebbe un grattacapo per Londra

Il partito che mira all’unione con la Repubblica Irlandese è in testa ai sondaggi dell’elezione di oggi: in caso di successo imprimerebbe una svolta epocale nelle relazioni tra Belfast a Dublino

AP/Lapresse

Per un «Ei fu» è presto. Ma oggi le elezioni più rilevanti per il futuro del Regno Unito non sono quelle locali, dove i conservatori arretreranno a vantaggio dei laburisti e i nuovi equilibri sentenzieranno se il governo di Boris Johnson, dopo mesi di scandali, ha esalato il «mortal sospiro». Sono in Irlanda del Nord.

Si vota per rinnovare il Parlamento, per la prima volta potrebbe vincere, e quindi esprimere il first minister, Sinn Féin, che sogna l’unificazione con la repubblica di Dublino. Un referendum non è all’ordine del giorno, ma sarebbe un segnale politico impossibile da ignorare, se non dal Manzanarre al Reno, almeno tra Londra e Bruxelles.

È dal 2003 che Sinn Féin è la seconda forza della regione. Nel 2017, la tornata precedente, ha sfiorato il sorpasso sui protestanti del Partito unionista democratico (Dup), che a Stormont (si chiama così il palazzo che ospita l’assemblea) ha un solo seggio in più. Nelle consultazioni successive, gli unionisti hanno perso consensi: secondo gli ultimi sondaggi, gli indipendentisti li hanno staccati di alcuni punti (26,2% a 18,2%) e, alla vigilia del voto, sono considerati i favoriti per la vittoria.

Il sistema elettorale ha base proporzionale, con una redistribuzione delle preferenze per aumentare la rappresentatività. Ogni elettore esprime un solo suffragio, ma può decidere di non sprecarlo qualora la sua prima scelta non superi la soglia di sbarramento nei 18 collegi, in ciascuno dei quali sono contesi cinque posti in Parlamento. Perché il voto sia trasferibile, invece di barrare il nome con una «x», i cittadini scrivono sulla scheda dei numeri, ordinando i candidati in una specie di classifica.

Le liste appartengono a tre blocchi: unionisti, nazionalisti e non allineati. L’Accordo del Venerdì Santo, che nel 1998 ha chiuso la stagione della violenza politica, obbliga i partiti a collaborare nel governo, in una coalizione esecutiva di 10 membri. Chi vince ha diritto a nominare il first minister, lo stesso titolo di Nicola Sturgeon in Scozia; a chi arriva secondo spetta invece il deputy minister. Gli altri otto ruoli sono spartiti in base ai seggi conquistati. Anche se il premier e il suo vice hanno formalmente lo stesso peso, tanto che non possono insediarsi se non è stata riempita l’altra casella, il Dup occupa i vertici dal 2007. Rompere questa egemonia, per Sinn Féin avrebbe un forte valore simbolico.

Un referendum, però, non fa parte del programma. A dipingerli come estremisti, o «terroristi» in quanto eredi dell’Ira, sono soprattutto gli avversari. Gli indipendentisti hanno enfatizzato il loro lato moderato, giocando la campagna su temi concreti come il costo della vita o la crisi economica, con in secondo piano le posizioni identitarie e divisive di un passato ormai lontano. Li guida Michelle O’Neill, 45 anni, che da vincitrice in pectore promette di essere una leader per tutti i nord-irlandesi, a prescindere dalle loro convinzioni.

Un’incognita è se gli unionisti accetteranno, in caso di sconfitta, di partecipare all’esecutivo. Le istituzioni locali sono già collassate, negli ultimi anni, quando gli scontri e le polemiche hanno affossato la coabitazione al potere. Anche al voto di oggi si è arrivati così: il primo ministro del Dup, Paul Givan si è dimesso, ufficialmente come protesta per la situazione della provincia dopo la Brexit, ma per i media era una mossa elettorale. I protestanti dicono di non essere disposti a governare se non verrà rivisto il protocollo sull’Irlanda del Nord: il partito, che oggi grida al «tradimento», lo ha però controfirmato insieme a Johnson.

È il lascito della Brexit. Nel 2016 l’Ulster ha votato per restare nell’Unione europea (55,8%). Il compromesso con Bruxelles ha mantenuto l’area nel mercato unico europeo, creando un confine doganale nel mare d’Irlanda. Da allora, le merci britanniche – il caso più mediatizzato ha riguardato le salsicce – sono sottoposte a controlli, da cui sono esentate quale comunitarie. Downing Street, da mesi, chiede alla commissione europea di rinegoziare le condizioni.

Nel 2024, il Parlamento di Belfast dovrà votare sul protocollo e potrebbe spaccarsi: i repubblicani sono a favore per ragioni pratiche, gli unionisti sono contrari perché temono sia il primo passo verso l’uscita della «nazione» dal Regno Unito, con l’unità economica come presupposto di quella politica con Dublino. In mezzo, alcune analisi sostengono che questo status ibrido, tra Europa e Gran Bretagna, potrebbe favorire la crescita e il commercio.

Se dopo le urne mancasse un patto tra le forze politiche, l’assemblea e i ministri in carica prima delle elezioni potrebbero sbrigare le funzioni correnti per un massimo di sei mesi. A quel punto, ci sarebbero altre trattative e, se lo stallo continuasse, nuove elezioni. In base alle rilevazioni demoscopiche, però, la popolazione non considera la revisione del protocollo una priorità. Uno dei principali vincoli a Londra, ha messo in luce un’analisi del Washington Post, è il sistema sanitario pubblico, che al governo inglese costa 12,5 miliardi di dollari in sussidi.

Nei sondaggi, anche il supporto alla riunificazione dell’isola si attesta sotto il 50% sia in Irlanda sia nell’Ulster. Un trionfo di Sinn Féin fotograferebbe soprattutto un trend demografico. Semplificando, sul lungo periodo la maggioranza passerà dai protestanti unionisti, ancora radicati nelle fasce demografiche più anziane, a cattolici e repubblicani. Il rischio è che le elezioni siano un ulteriore fattore di destabilizzazione.

Andrà misurata anche la concorrenza degli altri partiti unionisti, come l’Ulster unionist party (Uup) e il più radicale Traditional unionist voice (Tuv). Il loro blocco, complessivamente, potrebbe essere il più votato. Tra i nazionalisti, spera di fare da terzo polo il Social democratic and labour party (SDLP), che accusa gli indipendentisti di essere ormai parte dell’establishment, dopo 15 anni nelle istituzioni. Infine, i non allineati – come i Verdi e i centristi liberali dell’Alliance party – potrebbero confermare la crescita già registrata alle elezioni europee e locali.

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