Talk da spiaggiaLa tv velleitaria ha sprecato ancora una volta la presenza illuminante di Jovanotti

I conduttori poco curiosi di programmi con pretese d’intelligentismo invece di cogliere gli spunti dati da Lorenzo Cherubini hanno deciso di non ascoltarlo, seguendo il grande modello di Catherine Spaak (ma lei almeno aveva fatto “Il sorpasso”)

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Facessi un programma televisivo, avrei un’unica regola affissa in sala riunioni e messa in cima a ogni memo mandato nel gruppo WhatsApp della redazione: per nessuna ragione, invitare Lorenzo Jovanotti.

Lo so che vi sembra l’ospite ideale, generoso, spiritoso, viene a vendervi il suo prosciutto come tutti ma si sbatte per farlo in modo spettacolare come pochi, è disposto a vestirsi da pirla o a calarsi nell’interpretazione del Cary Grant che possiamo permetterci, fa battute stupende che il vostro pubblico può riciclarsi (avendole ascoltate, diversamente dai conduttori), e – come direbbero le acquirenti di raccolte di poesie smaniose di sentirsi laureate in lettere – fa ridere ma anche pensare.

Però, date retta: non invitatelo. Perché Lorenzo è come quello spray che usano negli sceneggiati americani coi delitti. Lo spruzzi, chiudi le tende, e su pavimenti che fino a quel momento sembravano lindi s’illumina al neon ogni punto in cui hai sgozzato qualcuno e poi hai lavato via il sangue – e sono sempre tantissimi, i metri quadri fosforescenti, in modo che agli spruzzatori di liquido disvelante sia chiaro che sì, lì ci hanno proprio trucidato la persona scomparsa, non è che qualcuno s’è ferito un pollice con l’angolo d’un foglio.

Lorenzo entra in uno studio televisivo, e quello che fino a lì era un programma con pretese d’intelligentismo svela la propria natura. Lorenzo è lo specchio loureediano che non fa niente, ma riflette quel che sei, in caso non lo sapessi. E quel che sei in tv, se non sei clamorosamente orrendo, è quasi sempre: velleitario, pretenzioso, con ipertrofica quanto infondata autostima (probabilmente la sera a cena sospiri agli amici che soffri di sindrome dell’impostore, come tutti quelli in realtà convinti di valere tantissimo, rovinati da quello spot dello shampoo, e di meritare di più).

Nel fine settimana è successo due volte, in due programmi fatti da gente che conosco, e che quindi non citerò: si offenderanno lo stesso – figuriamoci – ma meno che se gli arrivasse il Google Alert. Apparentemente tra le due apparizioni non c’è granché in comune: in una Lorenzo era in studio e in una collegato, in una ci teneva soprattutto a dire quanto gli è simpatica Banca Intesa e quanto gli è antipatica Italia Nostra, e nell’altra era lì per parlare della sua raccolta di poesie, un’antologia selezionata assieme a Nicola Crocetti e da lui firmata come «Jovanotti»: per fare lo spray che svela il sangue anche quando credono d’averlo ripulito, bisogna essere uno così risolto da farsi chiamare col nomignolo scemo tanto più quanto più culturale è l’operazione che mette in vendita.

Apparentemente le apparizioni apparivano diverse, ma il tratto dominante che hanno in comune è la lezione di Catherine Spaak. Quasi non ci sono intervistatori, in Italia, che non abbiano imparato il mestiere da “Harem”: qualunque cosa succeda, tu non ascoltare le risposte.

Venerdì, Lorenzo ha detto tre volte che, oltre alla pandemia, per lui sono stati due anni terribili per ragioni personali. Era diventato ripetitivo? No, è che la cosa che voleva arrivare a dire – mia figlia è stata male, ma adesso è guarita, ma non sapete che cazzo di paura in quell’intertempo interminabile tra la brutta e la bella notizia – il conduttore l’ha interrotta tre volte, sempre per borbottare delle irrilevanze che non ricordo quali fossero perché l’unico molto concentrato ad ascoltare solo sé stesso era lui stesso. Faccio peraltro sommessamente presente che, in una tv che smania per diventare meme, essere ripresa sui siti, essere notiziabile, in quella tv lì forse Lorenzo che parla per la prima volta esplicitamente del cancro della figlia sarebbe pure una notizia. Ma, certo: Catherine Spaak non l’avrebbe raccolta (però lei aveva fatto “Il sorpasso”: poteva fottersene di non essere David Letterman o Christiane Amanpour).

A un certo punto Lorenzo ha offerto uno spunto sul quale vorrei scrivere sette volumi e che ha a che fare con le due dorsali della creatività: il talento e la tigna. Mi è capitato – cito a memoria – d’incontrare gente fatta di musica, gente che era figlia della musica; io della musica mi sono sempre sentito più uno stalker, uno che la voleva fare ma non ce l’aveva dentro. Nessuno lo raccoglie. (Mi è capitato d’incontrare gente fatta di curiosità: non erano quasi mai intervistatori).

Sabato, il tutto era idealmente introdotto dal benigniano «sospensione d’i’i ricreativo, principia avviare il curturale», e quindi ancora più imbarazzante. Un’antologia è come una classifica: serve a farti chiedere «ma perché non ci hai messo la mia preferita», ma gli intellettuali in studio («voi v’intendete di parole», ha detto Lorenzo, e temo i tapini l’abbiano creduto serio: vedi, ci stima, vedi, lo sa che siamo letterati) erano impegnati a chiedere cosa fosse la poesia (quelle domande che poi se le fa Marzullo lo prendiamo per il culo: Gigi, scusa, non ti avevamo capito).

E quindi nessuno ha detto: ammazza, coraggiosi a metterci così poche donne, in ’sti tempi identitari. E quindi nessuno ha detto: protesto vibratamente per l’assenza di Marianne Moore (o altra preferenza degli intervistatori mancante dalla raccolta). E quindi nessuno ha detto: ma quindi quando hai declamato la Gualtieri a Sanremo stavi già vendendo il prosciutto.

Hanno fatto la lezioncina su quanto sia inaccettabile dire «assolutamente sì» o «assolutamente no», e poi, quando Lorenzo ha provato a illuminarli di verità suggerendo che il vero dramma semantico del presente sia l’abuso di «super» («assolutamente sì» era la sciatteria di molte ere fa, in misurazione geologica di tic lessicali), l’hanno interrotto senza ascoltarlo. (Se Lorenzo fonda un partito contro superlativi e accrescitivi ottenuti aggiungendo il doppiaggese «super», io m’iscrivo. Prima proposta di legge: ripristinare la lezione su «molto», «tanto» e «-issimo» nelle scuole elementari italiane).

Poco prima – poiché il volume di Jovanotti e Crocetti s’intitola “Poesie da spiaggia” – ci avevano spiegato che in spiaggia non va bene leggere gialli e fare parole crociate (cioè le due attività più svolte dai sedentari sulle spiagge: abbiamo sempre sbagliato, quante cose ci svela la tv velleitaria), ma che abbiamo il permesso di sfogliare rotocalchi pettegoli (grazie, meno male, ben gentile). E che Lorenzo è un poeta, perché poeta è chiunque emozioni il pubblico. Quindi è poeta Erin Doom, è poeta qualunque autrice di Harmony, è poeta Francesco Totti, è poeta Diana Spencer che si sfracella nel tunnel. Lorenzo, educatamente, non ha risposto come la signorina Silvani «ah, anche poeta», per poi procedere a sputare sul mascara con cui si stava truccando. È generoso, ma non è disposto a trasformare il velleitarismo in televisione con un solo trucco di radianza (non c’è neanche Sylvia Plath, nella raccolta; conoscendo un po’ Lorenzo, mi meraviglia assai meno della mancanza di Marianne Moore).

Lo so, la domanda non è perché la tv più ci tiene a sembrare intelligente più sia un disastro di emulazione fallita. La domanda è perché uno come Lorenzo Cherubini ci vada. Non la formulo perché ho la presunzione di sapere la risposta. Proprio come la Moore, di fronte alla palude insuperabile, Jovanotti è convinto di poterla passare, se ci prova.