Tutti contenti?Le criticità della legge Salvamare non possono essere ignorate

La norma voluta dall’ex ministro dell’Ambiente Costa ha finalmente risolto il “cavillo” che impediva ai pescatori di riportare a terra le plastiche trovate in mare. In più, renderà l'educazione ambientale obbligatoria nelle scuole. Tuttavia, non limita la pesca a strascico e tratta - di fatto - la Posidonia come un rifiuto qualsiasi

AP Photo/LaPresse

«Un’idea che diventa finalmente una legge per il bene del mare e dell’Italia». Sono state queste le parole che Sergio Costa, ministro dell’Ambiente dei governi Conte I e Conte II, ha voluto dedicare all’annuncio dell’approvazione della legge Salvamare, da lui presentata in Parlamento circa quattro anni fa. Con 198 voti favorevoli, nessun contrario e 17 astenuti, la bozza di provvedimento è recentemente passata anche al Senato. Un viaggio davvero lungo per un disegno di legge che ha iniziato il suo iter parlamentare nel lontano 2018 e che quattro anni dopo, agli sgoccioli della legislatura, è riuscito a tagliare il traguardo. 

«Con questa legge il nostro Paese dispone finalmente di uno strumento efficace e concreto, richiesto anche dall’Unione europea, che consente ai pescatori di portare a terra la plastica recuperata con le reti invece di scaricarla in mare, azione che prima costituiva reato di trasporto illecito di rifiuti», ha dichiarato Rossella Giugni, presidente dell’Associazione Mare Vivo, all’HuffPost Italia. Nonostante fosse un provvedimento atteso da tutte le associazioni e in linea con le recenti misure dell’Unione europea, la legge Salvamare – per quanto necessaria – mostra alcuni particolari rivedibili su cui è importante soffermarsi. 

Il recupero delle plastiche in mare e l’educazione ambientale nelle scuole
Ma partiamo dagli effetti positivi di questa legge. Fino ad oggi, tutti i pescatori che recuperavano plastiche in mare non potevano riportarle a terra e smaltirle correttamente, pena la reclusione da uno a sei anni. Una vera follia che la Salvamare sembra aver finalmente risolto. Ora la classificazione dei rifiuti accidentalmente pescati come semplici rifiuti urbani (RSU) faciliterà enormemente sia il trasporto a terra che lo smaltimento, consentendo così di superare tanto i problemi operativi quanto i rischi a carico dei pescatori.

Un provvedimento – valido anche per fiumi e laghi – che farà bene in primis al mar Mediterraneo, dove finiscono quasi 230mila tonnellate di plastica l’anno, pari al contenuto di quasi 500 container. Si tratta di una quantità elevatissima: non deve perciò sorprendere se il “mare nostrum” contenga una percentuale tra il 21% e il 54% delle microplastiche globali. In più, nelle acque del Tirreno si trova la più alta concentrazione di piccole particelle di plastica mai misurata nelle profondità di un ambiente marino, pari a 1,9 milioni di frammenti per metro quadrato. 

Per questo, la legge Salvamare si impegna a favorire la conservazione dell’ambiente – in particolare del mare e delle acque interne – oltre che un corretto conferimento dei rifiuti. Una pratica che è bene imparare sin da bambini. Ecco perché, grazie alla norma, nascerà a scuola una nuova materia: l’educazione ambientale, per insegnare ai ragazzi – tra le altre cose – come si svolge una corretta raccolta differenziata. 

Lo sostiene lo stesso articolo 9 del provvedimento: nelle scuole devono essere «promosse le corrette pratiche di conferimento dei rifiuti e sul recupero e riuso dei beni e dei prodotti a fine ciclo, anche con riferimento alla riduzione dell’utilizzo della plastica, e sui sistemi di riutilizzo disponibili». L’educazione ambientale, finora, è stata una materia insegnata a discrezione degli istituti scolastici, nonostante lo sviluppo sostenibile sia uno dei nuclei tematici prioritari delle 33 ore di Educazione civica. Adesso, invece, diventerà obbligatoria per tutti. 

Le criticità della legge Salvamare 
La legge – approvata alla Camera nel 2019 e in Senato un paio di settimane – all’apparenza fa contenti tutti (associazioni ambientaliste, cittadini, enti locali e politici) e promette aiuti concreti nella salvaguardia dei mari italiani. Tuttavia, sembra non essere sufficiente. Una riflessione in merito è stata condotta da Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, in un’intervista a Lifegate

La Ong ambientalista «è preoccupata dal fatto che la Salvamare preveda un riconoscimento per i pescatori che raccolgono i rifiuti. Ma non tutte le attività di pesca hanno lo stesso impatto sull’ambiente. Se magari un domani, per via della Salvamare, si riconosce come sostenibile un’attività di pesca a strascico (consiste nel trascinare una grande rete sul fondo del mare, ndr), che è tra le più devastanti per i nostri mari, vuol dire che si va nella direzione sbagliata». 

Il provvedimento può perciò anche essere corretto, ma servirà un’ulteriore implementazione della materia. Come sottolinea lo zoologo Ferdinando Boero sul suo blog sul Fatto Quotidiano serve anche una cultura ecologica, «perché non si può trattare quello che non si conosce. L’esempio è quello delle foglie di Posidonia, una pianta marina spesso confusa con un’alga, sul litorale». Secondo la Salvamare, la Posidonia deve essere smaltita come qualunque altro rifiuto pescato in mare. Da elemento difficile da trattare diventa un semplice rifiuto urbano (RSU). Insomma, nel provvedimento non viene in alcun modo sottolineata l’importanza di questa pianta. 

La Posidonia preserva il litorale dall’erosione delle onde, contribuendo allo stesso tempo all’assorbimento di CO2, alla produzione di ossigeno e alla protezione della fauna, visto che un ettaro di prateria ospita fino a 350 specie di animali. Non è un caso se per esempio in Sardegna, sul Golfo degli Aranci, è partito da poco un progetto omonimo: 2.500 talee di Posidonia sono state deposte sui fondali grazie a speciali stuoie in fibra di cocco che coprono una superficie di 100 metri quadrati. Una maggiore attenzione verso queste piante acquatiche è perciò necessaria. 

Le leggi simili all’estero
Provvedimenti simili all’estero non sono stati necessari, in quanto non è presente il reato di trasporto illegale di rifiuti come in Italia. Non manca però l’impegno sia degli Stati che delle istituzioni europee a tutelare gli oceani dall’invasione delle plastiche: pochi giorni fa, ad esempio, l’europarlamento ha approvato a larghissima maggioranza la Strategia europea per un’economia blu sostenibile, che vuole rendere più accettabili le attività di pesca (secondo una ricerca pubblicata su Nature, la pesca a strascico inquina tanto quanto il settore aereo). 

Nello specifico, il testo prevede un incremento degli investimenti nella pesca moderna e sostenibile per limitare l’impatto ambientale delle operazioni in mare, impiegando in maniera più massiccia le tecniche meno dannose per gli ecosistemi marini e terrestri. Da non dimenticare gli incentivi alla raccolta dei rifiuti dispersi nelle acque e alla maggiore produzione di alghe sul fondale marino, così da catturare gli eccessi di anidride carbonica. L’Unione europea si è inoltre impegnata a vietare la pesca a strascico in alcune delle aree marine protette: un particolare di non poco conto, se si pensa che il 92% degli scarti da pesca registrati in Europa proviene proprio da queste attività. 

Poi ci sono i provvedimenti dei singoli Stati, manifestazioni di volontà che attendono un ulteriore implementazione: un esempio è la Francia, un Paese che – secondo Greenpeace – rilascia ogni anno ben 80.000 tonnellate di plastica (10.000 finiscono regolarmente nel Mediterraneo). Nel 2020 il governo francese di Emmanuel Macron ha approvato una norma che limita l’uso della plastica usa e getta, fino ad abolirla completamente entro il 2040; combatte lo spreco e sostiene il riutilizzo solidale e infine crea dei veri e propri canali “chi inquina, paga”. 

In Spagna, invece, il governo ha appena approvato una nuova legge sulla pesca, che si impegna a legare più strettamente l’attività con le ricerche e le evidenze scientifiche, al fine di tutelare le risorse ittiche. Un impegno generico nel quale viene, ovviamente, menzionata anche la plastica, vista come un fattore che può determinare la riduzione di tali risorse, al pari del cambiamento climatico e delle specie invasive. Probabilmente un po’ poco.

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