L’alto mare apertoL’essere umano e l’insopprimibile bisogno di avventura che agita la vita

Nonostante la vita scorra serena lungo i binari dell’ordinarietà, il desiderio di esperienze diverse, intense e imprevedibili torna sempre a galla. È uno dei caratteri che, spiega Pietro Del Soldà nel suo ultimo libro (Marsilio) che ci rende quello che siamo

di Jordan McQueen, da Unsplash

Dolci e inquietanti, le esperienze avventurose sono accoglienti, perché al loro interno percepiamo l’essenza più pura di ciò che siamo, eppure sono anche destabilizzanti, fino al punto da mettere in crisi il patto (o «compromesso»?) che ogni giorno stringiamo con la società e con le sue regole, con il nostro lavoro e i ritmi soverchianti e talvolta alienanti che ci vengono imposti.

C’è un doppio movimento al cuore di queste esperienze che perdurano nel ricordo e che si alimentano della voglia di riviverle alla luce del giorno, anima e corpo. Un’energia duplice si libera dal loro nucleo mettendo in tensione la logica con cui ordiniamo le nostre idee. Ma non è tutto. Ogni frammento d’avventura, infatti, veicola un messaggio, un’esortazione che non dovremmo ignorare: è lo stimolo a «uscire da noi stessi» (lo stesso che ci offre Diotima con il suo discorso), a varcare la frontiera rassicurante e ben tracciata intorno a noi e grazie alla quale, giorno dopo giorno, il nostro Io si rafforza collezionando esperienze che sono compatibili l’una con l’altra, dunque sommabili, accumulabili secondo un criterio quantitativo, fino a comporre un ritratto definito e ben riconoscibile da uno sguardo esterno, in regola con la trama di relazioni sociali in cui siamo immersi.

Non parlo di una spinta a uscire da sé che si traduca nella follia o nell’isolamento come quella del giovane statunitense Christopher McCandless (la cui storia è raccontata nel romanzo Into the Wild di Jon Krakauer e nel film di Sean Penn) che dopo la laurea donò tutti i suoi soldi all’organizzazione umanitaria Oxfam e, ispirato dalla fuga nella natura di Thoreau e dai libri di Jack London, abbandonò la sua vita tranquilla e morì solo, di stenti e di freddo, nella carcassa di un vecchio autobus, perso nel cuore gelido dell’Alaska. Né penso a un fuori di sé radicale come quelli (ben diversi tra loro) a cui ci conducono, ad esempio, l’estasi mistica o lo sballo lisergico. Sia chiaro: niente di male, in queste esperienze estreme. Anzi, esse talvolta possono anche aiutare a sollevarci dal pantano di una normalità che ci blocca e non ci soddisfa.

Più in generale, tuttavia, l’essenza dell’avventura non è il de-lirium, parola che allude alla cancellazione del lyrum, del solco tracciato sulla terra da cui soltanto può scaturire il nomos, cioè la legge che rende possibile la convivenza e alla quale, scrive Erodoto, «sottostanno i greci in quanto sono uomini liberi». È piuttosto «una tensione che inarca la vita», secondo la definizione che ne dà Georg Simmel nel saggio La filosofia dell’avventura, catturandone perfettamente l’essenza. Per il filosofo, l’avventura è un tipo di esperienza molto particolare che ci capita di vivere: non è un momento accanto ad altri, non è solo una porzione limitata del nostro cammino.

Noi tendiamo a concepire l’esistenza come un tutto i cui singoli contenuti, di solito, «per quanto possano cozzare tra loro e risultare inconciliabili, sono innervati da un unico processo vitale che circola in tutti. La dimensione che chiamiamo “avventura” non si innesta sulla concatenazione di anelli di cui è fatta la vita, contraddice l’impressione che un unico filo rosso si dipani senza soluzione di continuità».

L’avventura per Simmel è dunque una piccola porzione di vita che si distingue da tutte le altre, che la precedono o che la seguono, per il tipo di rapporto che intrattiene con l’insieme di cui si compone una biografia. Ma non è riducibile a questo: l’avventura non è un caso fortuito più o meno piacevole o emozionante che però rimane semplicemente al di fuori dalla trama principale della nostra storia. Rispetto alle cose che facciamo di solito o alle situazioni prevedibili e saldamente collegate al senso generale, l’avventura è un corpo estraneo che però nasconde in sé un mistero: gravita attorno al centro della nostra esistenza. Ha una sua compiutezza, un inizio e una fine, e in questo mostra un’affinità con l’opera d’arte: cos’altro è l’opera d’arte, si chiede Simmel, se non una porzione del visibile ritagliata da tutto il resto per mano dell’artista? Lo stesso vale per l’esperienza avventurosa: non finisce solo perché poi succede qualcos’altro che la cancella; ha il suo svolgimento e la sua fine. Certo a volte è avulsa dal resto a tal punto che la memoria che ne abbiamo assomiglia più a un sogno, oppure al ricordo di una vicenda che ha coinvolto qualcun altro. Ma questa estraneità non attenua il suo legame con ciò che ci riguarda più intimamente. Scrive ancora Simmel:

seppure contingente ed extraterritoriale rispetto al continuum della biografia, l’avventura risulta in qualche modo coerente con la natura e l’intima vocazione del suo protagonista, in un senso più ampio che travalica le serie più razionali dell’esistenza nel nome di una misteriosa necessità.

Il riferimento alla natura misteriosa del legame paradossale tra l’eccentricità dell’avventura e il centro della nostra esistenza torna in ben quattro momenti diversi del breve saggio: non c’è modo, infatti, di spiegare razionalmente il perché una certa esperienza che mi trovo a vivere, a prescindere da «che cosa» io faccia in quel lasso di tempo, risulti effimera, incoerente, improduttiva, inutile, azzardata, imprevedibile, sorprendente… e tuttavia decisiva per farmi capire chi sono e farmi sentire vivo: la mia «intima vocazione» è sollecitata più da una bizzarra vicenda, il cui oggetto può sembrare persino una sciocchezza o un gioco, che non, ad esempio, dalla ben più seria e gravosa attività lavorativa che assorbe gran parte del mio tempo.

Il lavoro «strappa al mondo i suoi frutti con pazienza e fatica» e intrattiene con esso un rapporto organico, quotidiano e regolare, che avanza passo dopo passo in direzione dell’utile; l’avventura invece è «tutto o niente»: afferra al volo il mondo e lo conquista ma senza un obiettivo, senza un’utilità apparente, e ci rende più che mai esposti alla mercé di fattori imponderabili, ci rende vulnerabili e indifesi, e a noi in quel momento va bene così. Anche perché nel cuore dell’avventura ci scopriamo ottimisti, confidiamo nel caso, azzardiamo, a differenza di quanto facciamo di solito. Normalmente,

quando entrano in gioco elementi inconoscibili soggetti ai decreti del fato, e quindi l’esito del nostro agire non ci appare garantito, tendiamo a moderare le forze, a riservarci una via di ritirata e ad avanzare con cautela, saggiando il terreno a ogni passo. Nell’avventura facciamo l’esatto contrario: puntiamo tutto sull’occasione incerta, sul destino, sul pressappoco, tagliamo i ponti alle nostre spalle e avanziamo nella foschia come se il terreno non dovesse mancarci mai sotto i piedi.

L’avventuriero volge le spalle alle certezze della vita e si appoggia su un’ingiustificabile fiducia. In tal senso è affine al giocatore d’azzardo, il quale compie i suoi gesti scaramantici nella convinzione che vi sia un senso inspiegabile in quel caso che determina su quale settore della roulette si arresterà la pallina. In fondo, ciò che l’uno e l’altro cercano non è quel particolare contenuto della loro esperienza (i soldi delle vincite o i debiti prodotti dalle perdite, nel caso del giocatore), bensì la tensione alimentata dall’incertezza: una tensione che ha a che fare esclusivamente con la forma e non con il contenuto di un’azione.

Qualunque esperienza ci capiti di vivere può essere o non essere un’avventura: dipende da noi, dal momento in cui ci troviamo, dal modo in cui la affrontiamo. Un incontro amoroso, una gita in montagna, un viaggio, un’impresa ardita o un episodio irrilevante: tutto può essere avventura oppure ordinaria esistenza, può inserirsi noiosamente, quale tassello regolare, nella sceneggiatura della nostra vita, oppure può configurarsi come eccezione esaltante e fuori da ogni schema, che però «misteriosamente» racchiude e sintetizza la nostra inclinazione più intima, quella vocazione inconfessata che la vita di ogni giorno non sa portare alla luce.

A fare l’avventura non sono i contenuti vinti o persi, goduti o subiti, accessibili come tali anche all’interno di altre forme della vita. L’avventura sta nel radicalismo con il quale, a prescindere dal materiale e dalle sue differenze specifiche, sentiamo in tutte quelle cose come una tensione che inarca la vita, come una dinamica vitale che si esplica in rubato. La semplice esperienza diviene avventura quando quelle tensioni acquisiscono una violenza tale da strappare la vita a se stessa, proiettandola oltre quella materia. In fondo l’avventura è solo un pezzo di esistenza accanto ad altri, ma appartiene anche al novero di quelle forme abitate da una forza misteriosa che per un breve attimo hanno il potere di farci sentire l’intera totalità della vita come loro adempimento e loro sostrato, del tutto a prescindere dal contributo che danno alla vita e dalla contingenza dei singoli contenuti. Quasi che la vita stessa esistesse al solo scopo di realizzarle.

L’intera vita esisterebbe dunque solo per realizzare quei momenti apparentemente futili? Sembra quasi una follia, quest’affermazione di Simmel. E tuttavia essa parla nel profondo a ciascuno di noi. In quei momenti eccentrici ne va di noi stessi e forse da lì dovremmo attingere la consapevolezza di ciò che davvero siamo e vogliamo. Per poi provare a vivere di conseguenza, nei limiti del possibile, anche quando lavoriamo o viviamo le parti «non avventurose» della nostra vicenda terrena.

Da “La vita fuori di sé”, di Pietro Del Soldà, Marsilio editore, 2022, pagine 256, euro 18