L’appello lanciato da Linkiesta convince efficacemente del perché occorre votare sì ai 3 referendum sulla giustizia. Meritano però i lettori de Linkiesta di sapere anche perché è altrettanto necessario votare SÌ sui restanti due referendum.
Scheda di colore rosso, referendum n. 1
Il referendum si propone di abrogare l’intera “Legge Severino” che disciplina l’eleggibilità, la candidabilità e la decadenza di parlamentari e amministratori locali sottoposti a procedimenti penali nei termini che seguono.
- Parlamentari, europarlamentari e membri del governo sono incandidabili – e se già eletti decadono – se, anche in corso di mandato, siano stati condannati in via definitiva a pena superiore a 2 anni per delitti gravi di mafia e terrorismo, per delitti commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, per reati per cui è prevista la reclusione non inferiore a 4 anni.
- Gli amministratori locali sono incandidabili se siano stati condannati in via definitiva per delitti di mafia e terrorismo, per reati di corruzione e concussione, per condanna definitiva superiore ai 2 anni per delitti non colposi, se abbiano subito una misura di prevenzione con provvedimento definitivo.
- I soli amministratori locali decadono o sono sospesi anche in caso di condanna non definitiva per gli stessi casi di cui sopra (la sospensione cessa solo nel caso in cui vengano assolti nel successivo grado di giudizio).
- Parlamentari e amministratori locali incandidabili, dopo una sentenza di condanna definitiva, rimangono sospesi per una durata variabile, sulla base della sentenza di condanna, ma in ogni caso non inferiore a sei anni.
Uno schema di punizioni automatiche ed esemplari contro la “casta” dei politici e degli amministratori, ultimo colpo di coda della stagione di mani pulite e cupo preannuncio del populismo penale che sarebbe sopraggiunto.
Perché abrogarla?
- Perché la legge è applicabile anche retroattivamente e possono subire la incandidabilità o la decadenza anche persone che hanno commesso il reato molti anni prima della sua approvazione, il cui processo si conclude durante le elezioni o il loro mandato. Certo, secondo la Corte Costituzionale le punizioni della Legge Severino non sarebbero sanzioni penali, soggette al principio dell’irretroattività, ma regole di diritto civile a tutela dell’ordine pubblico, che pertanto possono anche essere retroattive. Ma è un evidente cavilloso formalismo che non cancella il fatto che la legge prevede conseguenze del reato che potevano non essere previste al momento della sua commissione.
- Perché la legge, laddove dispone la decadenza o la sospensione in caso di condanna non definitiva, viola il principio della presunzione di innocenza: quante volte abbiamo visto condanne in primo grado trasformarsi in più meditate assoluzioni in appello? Intanto le vite personali e i percorsi politici delle persone sono irrimediabilmente distrutte.
- Perché la Legge è assurdamente più severa verso gli amministratori locali (che possono essere colpiti anche in caso di condanna non definitiva) che nei confronti dei parlamentari: perché questa differenza di trattamento ingiustificata? Sappiamo che proprio gli amministratori locali sono maggiormente esposti al rischio di rispondere, penalmente, per reati commessi da funzionari, il cui operato non possono controllare direttamente. Anche in questo caso la Corte Costituzionale ha ritenuto che esista una diversità di status e di funzioni tra i due incarichi che giustifica una disparità di trattamento. E’ tuttavia interessante notare che entrambi i casi esaminati dalla Corte Costituzionale (su ricorsi del Sindaco di Napoli e del Presidente della Regione Campania) hanno proprio visto De Magistris e De Luca condannati in primo grado, assolti in appello e, nel frattempo, (ingiustamente) sospesi dalle rispettive cariche.
- Ma veniamo all’incandidabilità in caso di condanna in via definitiva. Qui tutte le persone di buon senso si chiedono: beh, cosa c’è di male?. C’è di male che la legge introduce un automatismo implacabile e sbagliato. Infatti queste stesse (e altre) misure, anche prima della Legge Severino, ben potevano, e tuttora possono, essere disposte dai giudici, alla fine del processo, con la sentenza di condanna alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Tuttavia un conto è una sentenza della magistratura che ha ben esaminato e ponderato i comportamenti che hanno originato la condanna, e che decide caso per caso se infliggere anche – valutate tutte le circostanze con buon senso e ragionevolezza – la interdizione dai pubblici uffici (che determina, appunto, incandidabilità e decadenza dalle cariche). Altro conto è invece fare a meno di qualsiasi valutazione specifica e applicare automaticamente, indiscriminatamente e a qualunque caso e circostanza l’incandidabilità e la decadenza: così facendo viene meno qualsiasi considerazione sulla persona, la sua carica politica o amministrativa viene travolta in modo automatico, inesorabile e soprattutto demagogico. Così al centro della giustizia non sta più la persona: la Legge Severino esprime diffidenza e disprezzo per le persone che ricoprono cariche politiche e amministrative e ritenute meritevoli di punizione esemplare a prescindere, anche a prescindere dagli esiti dei processi.
Qualche dato per meglio valutare gli effetti della legge: nel 2017 su 6.500 procedimenti per abuso di ufficio, se ne sono conclusi con sentenza passata in giudicato solo 57; su 9 persone condannate per abuso di ufficio in primo grado, 8 vengono assolte nei gradi successivi, e così su 3 persone condannate per corruzione o peculato almeno 2 sono destinate a essere assolte in appello.
Siamo così sicuri ora di voler conservare la inesorabilità delle decadenze e delle incandidabilità?
Scheda di colore arancione, referendum n. 2
Il quesito restringe i casi in cui possono essere inflitte misure cautelari, abrogando l’ipotesi di pericolo di reiterazione dello stesso reato.
Le misure cautelari sono provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria che limitano libertà fondamentali dell’individuo (arresti domiciliari, custodia in carcere, obbligo di firma, divieto di avvicinamento, sospensione della responsabilità genitoriale, sospensione da un pubblico ufficio o servizio, limitazione della libertà di disporre dei propri beni) durante le indagini e il processo, prima dunque della sentenza, anticipando la pena, che è incerta perché l’indagato potrebbe anche essere assolto.
La Costituzione (artt. 13 e 14) esige che la legge indichi chiaramente casi e modi in cui l’autorità giudiziaria può limitare le libertà fondamentali e, secondo la legge penale, per restringere la libertà occorrono a) gravi indizi di colpevolezza e b) esigenze cautelari, quali il pericolo di inquinamento della prova, il pericolo di fuga e il pericolo che vengano commessi ulteriori determinati reati.
Si ha pericolo di commettere ulteriori reati quando, in sintesi, «per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità del reo, desunta da comportamenti o atti concreti o da suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede (in tale ultimo caso soltanto per delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro o cinque anni) nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti» (il testo è semplificato per renderlo maggiormente comprensibile ai non addetti ai lavori, e sono sottolineate le parti di cui il referendum chiede la abrogazione).
Il referendum vuole abrogare il caso del pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede (peraltro introdotto solo nel 1995, prima non esisteva).
Perché questa abrogazione è opportuna?
Perché questa norma è spesso utilizzata per giustificare in modo quasi automatico forme intense di restrizione della libertà personale, cui non corrisponde una effettiva pericolosità del reo, in assenza di un accertamento definitivo della sua responsabilità penale.
Da strumento da utilizzare in casi di emergenza, si è trasformato in vera e propria anticipazione della pena in violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza.
La reclusione preventiva, imposta senza che si verifichino circostanze eccezionali o per un periodo eccessivo, lede il principio per cui ogni imputato dev’essere trattato come innocente fino a quando una condanna definitiva stabilisca la sua colpevolezza.
Anche in questo caso qualche dato aiuta a capire meglio: ogni anno (dati pre pandemia) sono effettuati circa 50.000 arresti in custodia cautelare. Una valutazione ex post rivela che almeno il 20 % di questi non avrebbe dovuto essere disposto (o perché la persona viene assolta o perché beneficia della condizionale).
Ogni anno migliaia di cittadini sono costretti a conoscere l’umiliazione della restrizione in carcere prima di un processo: l’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: il 30 % degli oltre 54.000 detenuti presenti nelle carceri italiane è in attesa di giudizio definitivo, la metà di loro sarà giudicata innocente.
Last but not least: il numero di detenuti senza condanna, rappresentando una grande parte della popolazione carceraria, contribuisce anche al deterioramento delle condizioni di detenzione di tutti i carcerati e determina una ingente costo per gli indennizzi (quasi 900 milioni di €).
Non credete a chi vi dice che usciranno tutti fuori: il referendum limita i casi in cui è possibile disporre la custodia cautelare, lasciando inalterati tutti i casi diversi dal pericolo di reiterazione dello stesso reato: cioè il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e il rischio di commettere reati di particolare gravità, con armi o altri mezzi violenti.
Ciliegina finale: il referendum abroga l’assurda speciale previsione di custodia cautelare per il solo reato di finanziamento illecito dei partiti, un vergognoso omaggio al populismo penale, che merita di essere seppellito con una croce sul sì.
*Simona Viola è Responsabile giustizia di +Europa