Chi ha avuto occasione di fare le vacanze in un villaggio turistico avrà certamente trovato, tra le frecce segnaletiche delle diverse attrazioni, quelle indicanti l’anfiteatro. Incuriosito, si sarà messo a cercarlo. Ma, specialmente se munito di qualche reminiscenza di studi classici, non sarà stato in grado di trovarlo: perché nei villaggi turistici, salvo improbabili eccezioni, l’anfiteatro non c’è. C’è invece il teatro, e la sua presenza sarà bastata a riempire le serate del nostro villeggiante, facendogli superare l’eventuale delusione per l’assenza di quanto promesso nelle pagine fragranti dei cataloghi.
Perché nel linguaggio dei resort “all inclusive”, ma non solo, si confonde sistematicamente il teatro con l’anfiteatro?
Come luogo fisico, il teatro (dal greco theáomai, guardo, osservo: quindi “luogo in cui si osserva”) è una struttura architettonica formata da una gradinata semicircolare (la cavea) chiusa da una scena rettilinea e destinata a ospitare spettacoli di prosa, opere liriche, operette, varietà o (come nel caso dei villaggi turistici) un po’ di tutto. L’anfiteatro – il più famoso al mondo è quello Flavio, altrimenti noto come Colosseo, I secolo d.C. – è invece una struttura a pianta ellittica o circolare che gli antichi romani riservavano ai combattimenti gladiatori (munera, uomini contro uomini, e venationes, uomini contro animali feroci) e ha le gradinate disposte tutto intorno, in greco amphí
“Intorno”, ma anche “da due parti”, “da ambo i lati” sono i valori semantici dell’avverbio e preposizione (e, nei composti, prefisso) amphí. Tucidide (IV, 102, 4) menziona un’antica città della Tracia “chiamata Anfipoli perché lo Strimone vi scorre ai due lati”, che il suo fondatore Agnone «isolò con un lungo muro condotto da un braccio all’altro del fiume»: una città, dunque, interamente circondata. Ai valori di circolarità e attorniamento rimandano conseguentemente i dizionari, sub voce anfiteatro, quando la parola è usata in senso traslato. Per esempio il vocabolario Treccani: «2. Disposizione a ordini semicircolari concentrici e degradanti (analoga a quella delle gradinate degli anfiteatri antichi) dei banchi delle aule d’insegnamento soprattutto universitario: a. anatomico. 3. In geografia fisica, a. morenico, il complesso di materiali morenici che un ghiacciaio ha depositato lungo l’arco della sua fronte in forma di rilievi concentrici. In astronomia, nome (anche circo) con cui vengono indicati i crateri lunari di maggiori dimensioni».
Questi valori “circolari” non sono evidentemente neppure sospettati da quanti usano anfiteatro in luogo di teatro. Chissà, forse associano quest’ultimo all’immagine di un luogo chiuso con sala a ferro di cavallo, palchi e platea al posto delle gradinate, quale è andato affermandosi in Italia a partire dal Cinquecento, ignari che nell’antica madre Grecia e ancora per secoli le rappresentazioni teatrali sono andate in scena all’aria aperta, e convinti che a questo fossero invece deputati gli anfiteatri. O magari avvertono in anfi- il senso di un ornamento nobilitante, qualche cosa che dà più importanza, come in genere accade quando si allungano le parole, per esempio con arci- (dal greco árchō, sono il primo, precedo, comando, che conferisce un valore rafforzativo: arciduca, arcivescovo, arcidiavolo) o con stra- (dal latino extra, fuori, che conferisce un valore superlativo: straricco, stravecchio, stracarico).
Ora, è vero che le lingue si evolvono, i significati si modificano, si ampliano e talvolta anche si ribaltano: potremmo dire, in termini nietzscheani, che le parole si piegano alla volontà di potenza di chi le usa. Ma la libertà creativa dei parlanti deve pure avere un limite: un minimo di accordo, un criterio condiviso va preservato, se non si vuole cadere nell’anarchia linguistica e quindi nell’incomunicabilità. E questo criterio condiviso quale può essere se non il rispetto dei valori semantici racchiusi nell’etimo, in coerenza con i quali si sono prodotte nel tempo – e ancora in futuro si potranno produrre – i vocaboli di una medesima famiglia lessicale?
Ritornando al caso in questione, se uno ha presente che cosa c’è dentro amphí – non è necessario avere studiato il greco, è possibile desumerlo dal confronto tra le parole accomunate da quel prefisso – potrà avere almeno una vaga idea di che cosa si intenda per anfibio, anfibolia, anfipodi eccetera, e potrà all’occorrenza creare neologismi che saranno comprensibili a tutti coloro che condividono il medesimo orizzonte linguistico. Quando invece si prescinde dalle etimologie si rischia di andare incontro a “incidenti di discorso” e spropositi, il più grottesco e disorientante dei quali è probabilmente quello che affligge il verbo paventare.
Il verbo italiano paventare, allo stesso modo del latino paveo da cui deriva (attraverso il tema del participio presente pavens, paventis), significa “temere”, “avere paura”, e questa accezione informa di sé tutti i lemmi connessi, da pavido a spaventare. Nelle occorrenze sui giornali – ahinoi indefesse fucine di sciatteria linguistica, quando non, come in questo caso, di fuorvianti cantonate – e a cascata nella cassa di risonanza della rete e nel lessico delle persone che credono di darsi un tono elevato ostentando parole di cui ignorano il significato, accade però che questo verbo sia spesso, se non il più delle volte, usato come se volesse dire tutt’altro: al posto di verbi con cui ha una certa assonanza, come “prospettare” (“mi ha paventato/prospettato le possibili implicazioni…”) o “palesare”, o anche “prevedere”, “ipotizzare”, “minacciare”. Con la conseguenza paradossale, per restare alla ansiogena cronaca di questi giorni, che la Russia che “paventa” l’uso della bomba atomica avrebbe in realtà paura dello strumento che agita per far paura, e l’Occidente che a ragione proprio questo strumento “paventa”, ossia lo teme, passerebbe per chi invece lo minaccia. Insomma una confusione (s)paventosa.