Il cofanetto blu passa di mano in modo solenne, in una cerimonia sobria alla presenza del Primo ministro, trasmessa in diretta televisiva. Chi la riceve non proferisce parola. Dentro c’è un dente, vecchio di 61 anni. Apparteneva a un giovane politico africano, assassinato in circostanze poco chiare ancora oggi, ma per tutto questo tempo è rimasto conservato in Europa. Il Belgio lo ha restituito alla Repubblica democratica del Congo: un gesto che rivela l’impegno delle autorità di Bruxelles a fare i conti con il passato coloniale del Paese.
Il dente era di Patrice Émery Lumumba, protagonista dell’indipendenza e primo Primo Ministro nella storia congolese. Non un mandato lungo, per la verità: Lumumba annunciò la nascita del nuovo Stato il 30 giugno del 1960, ma il 5 settembre dello stesso anno era già stato destituito e il 17 gennaio di quello successivo, assassinato.
Gli anni turbolenti a cavallo dell’indipendenza sono raccontati minuziosamente nel libro «Congo» del giornalista e scrittore David Van Reybrouck. Quel giovedì di giugno del 1960 Lumumba, appena proclamato Primo ministro dopo le prime elezioni della neonata repubblica, pronunciò un discorso storico, molto critico nei confronti della dominazione belga, durata in totale 75 anni. Nelle sue parole, il regime coloniale veniva associato alla schiavitù, al saccheggio, al lavoro estenuante e alla discriminazione razziale: il Congo era stato governato fino ad allora con una legge «crudele e disumana» per i suoi abitanti indigeni e «accomodante» per i bianchi colonizzatori.
Il discorso, intriso di rabbia e rivendicazioni e dal tono poco riconciliatorio, non piacque alle autorità belghe, che avevano appena concesso l’indipendenza al Paese. Lo stesso Re Baldovino, presente alla cerimonia, restò interdetto. Pochi mesi dopo, Lumumba sarebbe stato costretto a rimangiarsi quelle parole: in senso letterale, visto che fu obbligato a inghiottire una copia del testo.
I primi mesi di vita della Repubblica democratica del Congo furono infatti molto tormentati. Come ricostruisce Van Reybrouck, Lumumba procedette in maniera troppo rapida all’«africanizzazione» dell’esercito nazionale, trasformando la Force Publique dell’epoca coloniale nell’Armée Nationale Congolaise e sostituendo gli alti ufficiali belgi con impreparati militari del luogo. Una decisione forse motivata da intenzioni lodevoli, ma dagli effetti nefasti, visto che tolse al neonato governo un esercito efficiente con cui affermare il monopolio nell’uso della forza.
In pochi giorni, il Paese fu travolto da violenze e tumulti: alcuni fra i soldati che si erano ammutinati per ottenere promozioni e aumenti salariali attaccarono i civili europei ancora presenti in una città congolese, Thysville. La cosa provocò l’intervento dell’esercito belga, deciso a salvare i propri connazionali e l’esodo degli europei tolse al nuovo Stato anche il personale amministrativo, prima che si fosse pronti a sostituirlo.
La situazione degenerò presto, con due regioni meridionali, il Katanga e il Kasai del sud, che dichiararono a loro volta l’indipendenza dal Congo. Il caso congolese assunse subito una dimensione internazionale, con l’intervento delle Nazioni Unite, le pressioni del Belgio e degli Stati Uniti e la richiesta di aiuto inviata da Lumumba all’Urss: una mossa probabilmente dettata dall’inesperienza del governo, ma destinata ad aprire un fronte africano nella Guerra fredda.
Il 5 settembre Lumumba fu destituito dal Presidente della Repubblica, Joseph Kasavubu e il 14 si verificò il primo colpo di Stato, ad opera di Joseph-Désiré Mobutu, ex segretario e amico di Lumumba. Il primo risultato di questo caos governativo fu l’arresto ai domiciliari di Lumumba da parte del nuovo leader Mobutu, il cui governo provvisorio venne riconosciuto dalla Nazioni Unite. L’ex Primo ministro tentò la fuga dalla capitale Léopoldville verso l’Est del Paese, dove i suoi sostenitori avevano allestito un governo parallelo. Ma fu intercettato, incarcerato, torturato e infine trasferito nella regione del Katanga.
Qui trovò la morte, insieme a due fedelissimi, per mano delle autorità katanghesi, in un luogo sperduto nella foresta. I funzionari dei governi di Belgio e Stati Uniti, decisi a disfarsi di lui politicamente, non fecero nulla per impedire la deportazione di Lumumba, pur consci che ne avrebbe messo in pericolo la vita. Per questo i due Paesi sono considerati coinvolti, anche se non direttamente responsabili, nell’omicidio politico.
Storia di un dente
Racconta nel suo libro Van Reybrouck: «I tre prigionieri furono condotti, uno alla volta, sul bordo della fossa. A meno di quattro metri di distanza c’era il plotone d’esecuzione: quattro militari katanghesi con una mitragliatrice. Per tre volte una salva assordante risuonò nella notte. Lumumba fu l’ultimo a essere giustiziato. Alle 21.43 il corpo del Primo ministro eletto democraticamente del Congo rotolò nella fossa».
Viene ricordata anche la sottrazione del dente, operata dal vice-ispettore generale della polizia katanghese, un belga. «L’assassinio di Lumumba fu tenuto nascosto a lungo. Gerard Soete segò in pezzi i corpi e li sciolse in un barile di acido solforico. Dalla mascella superiore di Lumumba estrasse due denti rivestiti d’oro, dalla sua mano mozzò tre dita. Nella sua casa di Bruges conservò per anni una piccola scatola che mostrava talvolta ai visitatori: conteneva i denti e un proiettile».
Solo alla fine degli anni ‘80, Soete confessò il suo ruolo nell’occultamento dei cadaveri e la refurtiva trafugata. Ne scaturì un’inchiesta del parlamento belga, a cui dichiarò di aver gettato i resti di Lumumba nel Mare del Nord.
Ma nel 2016, sedici anni dopo la sua morte, la polizia belga sequestrò a casa della figlia di Soete un dente, che ora è stato consegnato alla famiglia di Lumumba e alla Repubblica democratica del Congo. Con tanto di scuse dell’attuale Primo ministro di Bruxelles, Alexander De Croo, non solo per l’appropriazione indebita. «Abbiamo riconosciuto la responsabilità morale del governo belga. Vorrei qui, alla presenza della sua famiglia, presentare a mia volta le scuse per il modo in cui il governo belga all’epoca ha pesato sulla decisione di uccidere Patrice Émery Lumumba».
I conti con il passato
La restituzione segue di pochi giorni quella, altrettanto simbolica, di una grande collezione di maschere africane finora conservate nel museo di Tervuren, alle porte di Bruxelles. Un gesto realizzato nell’ambito di una visita diplomatica molto importante, effettuata dal Re dei belgi Filippo e dalla regina Mathilde, accompagnati da rappresentanti del governo, nelle città di Kinshasa, Lubumbashi e Bukavu.
In quell’occasione, dal sovrano belga sono arrivate parole di rammarico, se non proprio scuse esplicite, per gli anni della dominazione coloniale, causa di «ferite profonde». Filippo ha evocato una relazione tra belgi e congolesi «ineguale, ingiustificabile, segnata da paternalismo, discriminazione e razzismo». Toni simili erano stati utilizzati in una lettera ufficiale indirizzata al presidente congolese Félix Tshisekedi due anni fa, per celebrare i 60 anni dall’indipendenza del Paese.
Il trisnonno di Filippo, Leopoldo II di Sassonia-Coburgo-Gotha, si appropriò nel 1885 del territorio che corrisponde all’incirca all’attuale Congo. Per oltre due decenni, si trattò di un dominio «personale». Leopoldo era a capo dell’Associazione Internazionale del Congo, nata in teoria per garantire il libero commercio in quello che era appunto chiamato «Stato Libero del Congo», sulla carta escluso dai confini coloniali africani delle potenze europee. In pratica, il Congo fu amministrato da funzionari belgi come un possedimento personale di Leopoldo: monarca costituzionale in patria, dove doveva rendere conto al Parlamento, e sovrano assoluto in una terra grande 80 volte il Belgio, dove tra l’altro non mise mai piede.
Il Congo di Leopoldo fu segnato da uno sfruttamento intensivo delle materie prime: inizialmente l’avorio, che però non permise al sovrano di rientrare dagli investimenti iniziali, poi la gomma, molto richiesta alla fine diciannovesimo secolo con l’invenzione dello pneumatico. Proprio in questo periodo si verificarono grandi atrocità nei confronti della popolazione locale, costretta a raccogliere gomma incidendo le liane come forma di tassazione e punita severamente quando non in grado di consegnare alle autorità i quantitativi richiesti.
Rapporti, testimonianze, fotografie e un’inchiesta internazionale dell’epoca hanno evidenziato trattamenti disumani, frustate, amputazioni di arti e omicidi punitivi perpetrati da belgi sadici o sorveglianti locali incaricati dai superiori di ottenere i pagamenti. Le stime, molto complicate per la mancanza di cifre affidabili, parlano di milioni di morti per la «politica della gomma»: non solo a causa delle punizioni inflitte, ma anche e soprattutto per le condizioni insalubri di lavoro e il generale impoverimento dei villaggi congolesi, condannati alla malnutrizione, alle epidemie e allo spopolamento.
La pressione internazionale suscitata da tali atrocità costrinse Leopoldo a rinunciare al suo territorio d’oltremare, che dal 1908 divenne ufficialmente una colonia del Belgio. Diminuirono gli episodi cruenti, ma la dominazione restò segnata da profondi squilibri, una politica commerciale di rapina (soprattutto mineraria) e la discriminazione perpetrata dagli europei nei confronti dei locali, che vivevano in una situazione di apartheid di fatto e potevano al massimo aspirare al rango di évolué (evoluti), ovvero neri che provavano a imitare i costumi dei bianchi ed essere ammessi ai loro consessi sociali.
L’incidenza negativa negli anni della colonizzazione e in quelli successivi all’indipendenza, con le redini economiche del Paese in mano alle élite belghe e l’intromissione nella politica nazionale, sono state causa di tensione nella seconda parte del ‘900 tra Bruxelles e Kinshasa, come fu ribattezzata nel 1966 la capitale Léopoldville, in un tentativo di africanizzare la toponomastica del Paese che trasformò persino il Congo in Zaire.
Oltre alla freddezza tra i due governi, si è registrato per anni il silenzio della monarchia belga sul passato coloniale, rotto solo di recente da Filippo. Secondo la stampa nazionale, nel 2020 il movimento Black Lives Matter ha favorito il riemergere del dibattito sulle responsabilità del Belgio in Congo, culminato con la lettera di rammarico inviata dal sovrano e l’istituzione di una nuova commissione parlamentare per indagare sui crimini dell’epoca coloniale, che presenterà le sue conclusioni alla fine dell’anno. Con queste iniziative, forse tardive, il Belgio cerca di riconciliarsi con il Congo sul passato comune, con la speranza esplicita di rafforzare i legami per il futuro.