C’è già chi lo chiama “inverno crypto”, il terzo dopo quelli del 2013-2014 e del 2018. Effettivamente, le notizie dei primi mesi del 2022 – e soprattutto degli ultimi giorni – non lasciano presagire nulla di buono per il Bitcoin e le altre criptovalute: un settore responsabile di notevoli emissioni di gas serra, in quanto il meccanismo necessario per convalidare le transazioni ed estrarre nuove monete digitali (le cosiddette attività di mining) è dispendioso e inefficiente in termini energetici. Dietro questa crisi c’è un intricato insieme di co-fattori, tra cui l’inflazione e il rialzo dei tassi di interesse da parte della Fed e della Bce.
Da gennaio a maggio 2022, il mercato delle crypto ha perso una cifra pari a 1.500 miliardi di dollari in valore complessivo. Lunedì 13 giugno è stato uno dei giorni più lugubri dell’esistenza di questa criptovaluta fondata sulla tecnologia blockchain: il valore del Bitcoin è sceso sotto i 24mila dollari per la prima volta dal 2020, dopo che nel novembre 2021 aveva sfiorato i 69mila dollari (un crollo del 60%). E anche Ethereum non se la sta passando troppo bene, a causa di perdita di valore settimanale (dal 6 al 13 giugno) superiore al 30%. Cifre che stanno cominciando a mettere in allarme le aziende specializzate: basti pensare che Coinbase, piattaforma dedicata allo scambio di criptovalute, licenzierà un quinto del suo personale (circa 1.100 dipendenti) per limitare i danni dovuti all’aumento dei costi.
Parallelamente alle preoccupazioni di chi opera nel settore, la crisi delle criptovalute sta facendo emergere nuove riflessioni in ambito energetico. E se questo inverno crypto portasse con sé dei benefici ambientali? Quando il valore del Bitcoin è alto, i miners (coloro che, tramite dei potenti computer, risolvono i calcoli matematici necessari per creare la criptovaluta, fornendo poi le prove di aver sciolto quell’enigma) sono più incentivati a portare a termine le loro attività di estrazione attraverso l’algoritmo di consenso “proof-of-work”, e di conseguenza utilizzano più energia elettrica e generano più emissioni di gas a effetto serra.
Quando la redditività del Bitcoin scende, come nel caso attuale, dovrebbe accadere il contrario: «Stiamo arrivando a livelli di prezzo in cui il lavoro sta diventando più difficile per i “minatori”. Questa crisi avrà effettivamente un impatto sulle loro operazioni quotidiane», spiega a The Verge l’economista Alex de Vries, secondo cui – se il valore del Bitcoin dovesse rimanere a lungo sotto i 25.200 dollari – molte operazioni di mining sarebbero costrette a premere l’interruttore “off”.
Se le condizioni attuali dovessero proseguire nel lungo periodo, sempre secondo Alex de Vries, il consumo energetico annuo delle reti che supportano Bitcoin e Ethereum calerebbe di circa 70 TWh: l’equivalente del consumo di elettricità di un piccolo – ma industrializzato ed efficiente – Paese come l’Austria. In più, le emissioni di anidride carbonica (Co2) associate al mining delle due crypto starebbero scendendo con un ritmo di 110.000 tonnellate al giorno.
Tuttavia, è ancora presto per parlare di reali benefici ambientali, che certamente non verranno innescati dal crollo momentaneo delle emissioni della rete Bitcoin. Inoltre, osservando il grafico dell’hash rate (la potenza computazionale della rete Bitcoin), notiamo l’assenza di importanti flessioni durante i primi mesi di questa crisi. Anzi, il 12 giugno è stato addirittura registrato un picco annuo. Ciò significa che le “mining farm” (i capannoni o le fabbriche piene di computer finalizzati all’estrazione di nuove crypto) non stanno smettendo di funzionare e di utilizzare la loro consueta quantità di energia elettrica.
«Tuttavia, se tra 30 o 60 giorni dovessimo notare un crollo significativo della potenza computazionale, significherebbe che tanti soggetti sono stati costretti a chiudere le loro attività con il Bitcoin sotto i 24mila dollari. Ora non vedo alcun segnale per cui l’attuale riduzione del valore del Bitcoin stia portando allo spegnimento di mining farm. C’è da dire, però, che quando la redditività del Bitcoin si abbassa, le farm meno profittevoli ed efficienti possono spegnersi», ci spiega Ferdinando Ametrano, Ceo di CheckSig e professore di Bitcoin e tecnologia blockchain all’università Bicocca di Milano.
L’affermazione di Ametrano è interessante e in linea con il punto di vista di molti altri esperti in materia: questo terzo “inverno crypto” potrebbe portare a una scrematura, causando il fallimento dei progetti più speculativi, meno profittevoli e non professionali. E più inquinanti. «Chi è meno profittevole ha costi operativi più alti. Potrebbe esserci una selezione che premia gli attori in grado di fornire un’efficienza computazionale energeticamente non obsoleta. Chi resterebbe sul mercato? Chi l’energia la paga poco perché si aggancia alle rinnovabili, o chi è estremamente efficiente e riesce a produrre molta potenza di calcolo con consumi energetici bassi», ipotizza Ametrano.
Con l’attuale crisi delle criptovalute potrebbe non esserci più spazio per chi fa mining hobbistico o per chi usa elettricità principalmente generata da fonti fossili. In tal senso, va ricordato che le principali società che estraggono criptovalute si sono stanziate da tempo nelle zone del mondo in cui la natura fornisce rinnovabili in abbondanza, come il Texas, l’Arizona, il Canada, la Scandinavia.
Il miner professionale di oggi sa che è più facile e conveniente utilizzare l’energia pulita. Secondo le stime del Cambridge bitcoin mining electricity consumption index (Cbeci), il 76% dei “minatori” si affida (completamente o in parte) alle rinnovabili. E gli ultimi aggiornamenti del Bitcoin mining council, un’associazione di 44 società che conducono attività di estrazione della principale criptovaluta, parlano di un mix energetico sostenibile al 64,6%. È un dato di fatto che la rete Bitcoin consumi una esorbitante quantità di energia (circa 124,7 TWh annui: più della Norvegia). Così come è un dato di fatto che la rete Bitcoin si sia ormai accorta dell’importanza e delle potenzialità delle fonti green.
Insomma, non basteranno pochi mesi di crisi per scoraggiare i miners professionali, strutturati e consolidati. Anche perché i momenti d’oro del 2021 hanno permesso loro di accumulare preziosi risparmi. «Stime più o meno attendibili dicono che l’industria del mining abbia in realtà un costo per Bitcoin intorno ai 12-15mila dollari: il grosso del mining è ancora profittevole per un Bitcoin che stia sopra i 15mila dollari. Questa industria ha ampi margini di profittabilità», conclude il professor Ferdinando Ametrano.