Me la vedo, l’editorialista ignorante come un carabiniere, che va sulla voce Wikipedia di Giorgio Strehler. Cinque minuti prima, di lui sapeva che era un tizio coi capelli bianchi e il golf a dolcevita, ah sì quello del teatro vicino alla fermata del metrò in Brera; cinque minuti dopo, si sente istruita e in grado di fare il suo bravo post Instagram in cui esprimere sussiego nei confronti dell’arricchito semianalfabeta che osa non conoscere a memoria gli allestimenti strehleriani di Brecht, e mica sarà una giustificazione che siano andati in scena trent’anni prima che l’arricchito nascesse.
Esistono ancora ricchi colti? È la domanda che mi sono fatta più spesso negli ultimi anni, da quando i ricchi stanno per la maggior parte su Instagram, e svelano ogni giorno il loro non essere in grado di scrivere una didascalia senza errori d’ortografia. La prima volta che mi parlarono di Gianluca Vacchi mi dissero che un intellettuale che conosco gli faceva da precettore, e non mi sono mai presa il disturbo di verificare se fosse vero, ma non ho mai smesso di pensarci: perché quelli che non hanno studiato, quando si arricchiscono, non si prendono tutti un precettore che li renda conversatori passabili, gente che sa i nomi delle correnti filosofiche e quelli degli scrittori quel tanto che basta ad avere, a cena, argomenti che non siano la manicure semipermanente e i bitcoin?
Non lo fa nessuno: sono impegnati a fatturare. Ogni ora che passi con un precettore che t’insegni la storia della letteratura – ammesso tu riesca ad ascoltarlo, con l’attenzione fragile e frammentata che ormai abbiamo tutti – è un’ora in cui potresti fare qualche filmino che ti aumenta il mercato di Instagram. E per il mercato di Instagram devi filmare i cani, i figli, gli addominali, mica il tuo tentativo di leggere la Recherche (oddio, su TikTok la Recherche con le pecette colorate funziona, ma se devi preoccuparti dei colori delle pecette per renderla fotogenica mica ti resta il tempo di leggerla).
Per chi fosse stato su Marte (o a fatturare) e si fosse perso il desolante spettacolo di aspiranti intellettuali ignoranti come carabinieri che fanno la moralina al marito della Ferragni che, santo cielo, ha detto «chi cazzo è Strehler», riassumiamo i fatti.
Il marito della Ferragni fa un podcast. Registrato e montato, come tutti i podcast. L’ospite è Gerry Scotti che a un certo punto, parlando delle candidature politiche dei personaggi noti a Milano, dice «l’ultimo nome che hanno proposto era Strehler». Il marito della Ferragni, trovandolo immagino un nome buffo, si volta ridendo verso qualche collaboratore e chiede «chi cazzo è Strehler».
I commentatori ignoranti come carabinieri titolano «gaffe», ignari che una gaffe è un inciampo che ti sputtana tuo malgrado, che non puoi far nulla per nascondere: gliene fosse fregato qualcosa, l’avesse ritenuto rilevante, quella battuta l’avrebbe agevolmente tagliata prima di mettere on line il video. «Non so niente, come tutti voi» è la formula vincente di questi anni di comunicazione, e questo chiunque non sia ignorante come un carabiniere lo sa, ma la domanda è un’altra: perché uno nato nel 1989, in una famiglia non ricca e non colta e azzarderei non frequentatrice del teatro di prosa, dovrebbe sapere chi è Giorgio Strehler?
Con l’impeto con cui potrebbe indignarsene la Vanoni (l’unica che sarebbe autorizzata a ritenere imperdonabile la lacuna: va bene non esser mai stato a teatro, ma dove hai vissuto per non aver mai letto un’intervista a Ornella Vanoni in cui racconta sempre con le stesse parole sempre gli stessi aneddoti sulla sua grande storia d’amore con Strehler?), una scrittrice su Twitter dice che Strehler le ha cambiato la vita.
È una donna adulta, e io resto attonita ogni volta che un adulto sostiene che un libro, un film, un personaggio pubblico gli hanno cambiato la vita. Resterei attonita anche se dicessero che gliel’ha cambiata una loro zia (che vuol dire «cambiare la vita»? Forse una zia che ti lascia erede universale, toh, quella effettivamente ti cambia la vita), ma no, la loro vita l’ha sempre cambiata un romanziere, uno che sono andati a vedere a teatro, un concerto. Mai la scoperta che sulle tagliatelle ai porcini stia benissimo il parmigiano, o un sonnifero che finalmente funzionasse.
Notevoli anche quelli secondo cui i registi teatrali si studiano a scuola. I programmi sono sicuramente cambiati dai miei tempi, quando sì, portai alla maturità Beckett come argomento a piacere perché facevo il linguistico, ma se avessi frequentato una scuola in cui la letteratura inglese non era la prima materia probabilmente tutto quel che avrei saputo di Shakespeare sarebbe stato che c’era un film di Zeffirelli da Romeo e Giulietta.
Magari ora si studia di più il teatro (non secondo gli insegnanti con cui ho parlato in questi giorni), ma sospetto nel caso se ne studino sì e no i testi. O forse, come successe a noi al posto d’una lezione di letteratura francese, gli si fa vedere qualcosa, ai liceali che al buio limoneranno senza guardare lo schermo: a noi fecero guardare il film da Notre-Dame de Paris, il che non mi rese una che quindici anni dopo quella lezione sapeva qualcosa del regista. E se, trent’anni dopo, so qualcosina di Victor Hugo o di Gina Lollobrigida, è perché mi sono occupata di queste cose da grande. Della scuola ti resta sì e no la capacità di far le addizioni, se da grande studi: avete mai visto un intellettuale vantarsi di sapere i confini dell’Umbria o la data di nascita di Manzoni?
Se poi da grande sei uno che dice che aveva buoni voti a scuola perché non ha vanti culturali adulti, beh, quello è in effetti un problema drammatico. Aggravato dal tuo (eventuale ma probabile, a guardare le statistiche che accomunano i discorsi pubblici d’intellettuali e miliardari) non sapere distinguere tra i casi grammaticali in cui utilizzare «gli» e quelli in cui utilizzare «le»: quello dovevi imparare, a scuola, no le regie teatrali.
La terza specie di adulti del presente, quella di chi da piccolo non aveva buoni voti e da grande se ne fotte giacché impegnato a fatturare, è tutto sommato la più lieta, mentre noi ci agitiamo perché santo-cielo-come-si-può-ignorare-l’allestimento-di-Arlecchino.
C’è poi tutta una suscettibilità geografica: Strehler è Milano, come può uno che vive a Milano non sapere. Se pensate il campanilismo dei romani sia scemo, sappiate che i milanesi si stanno attrezzando per competere. Ho avuto la tentazione di rispondere a qualcuno di questi che ho sempre trovato noiosissimo Jannacci, ma ho temuto mi avrebbero risposto di andare su Google. Google è la grande risposta di questi polemisti dilettanti a tutto: sono davvero convinti che se googlo la scissione dell’atomo diventerò una persona in grado di parlare di Fisica, che tutto quel che mi separa dall’essere colta in settori dei quali non so nulla sia una rapida ricerca e la lettura d’una voce Wikipedia. Sono davvero convinti che se contesto l’importanza di qualcosa è perché non la conosco, e che se fossi informata sarei d’accordo con loro, che sono istruiti e ancora sognano l’esame di maturità, tra una ricerca su Google e l’altra.
Ieri Andrea Pennacchi, che conosce il teatro come pochissimi, ha twittato una parafrasi di Chiedi chi erano i Beatles, canzone manifesto di questo tempo in cui nessuno sa niente ma la cosa che non sanno gli altri è sempre più grave di quella che non sai te, in cui esortava a chiedere chi cazzo fosse Strehler. Gli hanno spiegato che aveva messo in scena il Faust. Su Google il senso del tono mica lo trovi, se sei ignorante come un carabiniere ma l’accesso a tantissime informazioni ti fa sentire mica istruito: addirittura colto.
La drammatica verità è che Google è utile in casi molto marginali. Per esempio lo si può aprire per cercare «ignorante come un carabiniere», facendosi venire il dubbio che sia una citazione e che sia bene saperlo prima di correre sui social a scrivere che quella stronza manca di rispetto all’Arma. A scoprire autore e contesto e a chiedersi chi sia lecito ignorare e chi no, degli autori naturalizzati milanesi, e a chi somigliamo, tra l’ignorante con velleità e quello troppo impegnato a fottersene e fatturare.