Cosa dice del livello culturale del nostro tempo il fatto che consumiamo le opere soltanto se esse sono trasposizioni non dissimulate delle vite, e che non vogliamo un io narrante ma un buco della serratura, e che non vogliamo assistere a quello che hai deciso di mettere in scena ma vogliamo conoscere te che ti metti in scena, illuderci che siamo amici, depositari dei tuoi segreti, osservatori degli angoli delle inquadrature che loro sì ti sanno?
Ci pensavo mentre il marito della Ferragni – che se deve vendere una canzone ha bisogno di trucchi social quali «seguo cento di voi tra quelli che mettono like», ma se deve venderci la sua vita e le sue malattie non spinge troppo, sapendo che il prodotto funziona da sé – collegava mirabilmente il suo cancro e il relativo timore di lasciare orfani i figli al verso della canzone da vendere quest’estate, «la vita senza amore dimmi tu che vita è».
Ma soprattutto ci pensavo guardando, in grave ritardo, “Mucho más”, il documentario su Gianluca Vacchi che è su Prime ed è stato reso obsolescente dal fatto che quando è uscito sono arrivati anche, sui giornali, i racconti di come Vacchi costringa la servitù a improbabili coreografie per il suo Instagram. Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto che non erano loro che lo supplicavano di partecipare ai balletti in grembiule e crestina.
Che sia verosimile o no, che sia succulenta o no, l’indiscrezione imprevista vincerà sempre sul prodotto programmato: se vogliamo illuderci di vedere la verità, essa non dev’essere sospettabile di sceneggiatura.
I documentari di questi anni sono tutti bruttissimi. È colpa delle piattaforme, certo: della loro logorrea, del loro far diventare tutto roba da otto puntate. Ma è anche colpa del fatto che ormai non puoi essere brillante, sennò la gente non s’immedesima; devi piangere, sennò la gente non s’immedesima; devi dire frasi da calendario di Frate Indovino, mica da testo di Karl Kraus (sennò, indovinate?, la gente non s’immedesima); non devi fare o dire niente che possa far pensare al pubblico guarda questo quant’è distante da me: magari sei fantastiliardario, ma soffri, ma sei comunque uno di noi. Insomma: vogliamo sceneggiature troppo loffie per sembrare tali.
E poi c’è il problema che i soggetti da raccontare hanno tutti la smania di fare bella figura, e non si circondano certo di gente che dica loro che il re è nudo. Di Matt Tyrnauer (il regista di “Valentino – L’ultimo imperatore” che monta il documentario con tutte le parti più petulanti che mai Valentino e Giammetti avrebbero voluto rese pubbliche) ce n’è uno; ma pure di Valentino e Giammetti che lo vedono, capiscono che funziona, e se ne fottono di uscirne bene non ce ne sono moltissimi – forse nessuno.
Ci pensavo mentre Gianluca Vacchi diceva che bisogna decidersi: o è un cretino lui e quindi lo sono milioni di persone che lo seguono perché lo amano, oppure ha ragione lui. Pensavo: ah, vedi, Vacchi usa Instagram solo per postare le sue cose. Se lo usasse per guardare le cose degli altri, saprebbe che guardiamo quasi solo coloro dei quali possiamo dire «mamma mia quant’è coglione», che guardiamo Instagram come l’elettore di sinistra negli anni Novanta guardava Emilio Fede: per raccapricciarci e sentirci superiori.
Ma pensavo anche: quindi Vacchi non ha un amico, uno stipendiato, un parente, un qualcuno che gli sveli che il meccanismo è quello, e molte visualizzazioni non necessariamente equivalgono a molta stima. Oppure ce l’ha ma pensa (non a torto) che guardiamo le cose con un’attenzione così lasca che, se sentiamo uno dire «mi guardano quindi mi reputano un figo», difficilmente ci mettiamo a contestarlo? Magari ha sia l’amico che la consapevolezza, ma sa quanto tendiamo a non cercare secondi livelli: se dice che è un figo, lo sarà.
Ci pensavo mentre Vacchi diceva che un uomo che legge vive mille vite e uno che non legge ne vive una sola, e mancavano la gatta al lardo e le mogli e i buoi; ci pensavo mentre diceva «sono stato il primo a portare la musica latina a Ibiza», come quelle pizzerie del New Jersey che si vantano d’essere più italiane delle altre.
“Mucho más” somiglia a tutti i documentari brutti degli ultimi anni. Come Tiziano Ferro, Vacchi piange tantissimo. Come Chiara Ferragni, usa la nascita della figlia come materiale narrativo. Come Elisabetta Franchi, ci dice che si è fatto da solo (Vacchi sciava a Cortina quarant’anni prima di quando sarebbe arrivata a farlo la Franchi – ma ora non cavilliamo). Come tutti, il documentario è fatto per un terzo di filmati già visti su Instagram, giacché ormai il pubblico vuole solo ciò che già conosce.
Se fosse stato un documentario valentinesco, avrebbe contenuto non l’Instagram compiaciuto di Vacchi ma i fuorionda che abbiamo guardato sui siti dei giornali: quel video dei domestici di casa Vacchi che lo difendono dopo lo scandalo, e dicono che il dottore chiede sempre per favore quando vuole che gli portino un asciugamano, quello è meglio di qualunque pianto di Vacchi (per la figlia, per la casa in Sardegna, per un po’ tutto).
C’è un mezzo secondo fatto così, in “Mucho más”, quando Vacchi si tuffa con una capriola dalla barca, e la corte dei miracoli a bordo applaude, e si desidera che sia tutto così: tutto trattato sulle classi sociali, tutto “Wolf of Wall Street”, tutto io sono io e voi non siete un cazzo. E invece è tutto un frignare: del padre che sarebbe fiero di lui, delle braccia che non sentiva più stringendo la sua piccina uscita dalla sala operatoria, della gente che giudica (in pieno spirito del tempo, Vacchi si mette in scena e poi trasecola se lo giudicano).
Che occasione sprecata. C’è persino un momento stupendo in cui Vacchi dice d’essere nato «benestante, non ricco», e che il suo patrimonio ora è cento volte quello che gli ha lasciato il padre. Da non crederci: la regia non ha la prontezza di contrappuntarlo con «il cash non mi ha cambiato, sono ancora poco ricco»