Il caldo torrido e la fusione dei ghiacciai, il Fit for 55 dell’Unione europea, la crisi idrica, i tagli alle esportazioni di gas da parte della Russia hanno posto l’emergenza climatica ed energetica al centro del dibattito pubblico delle ultime settimane. La necessità di progettare realisticamente un modello di sviluppo più sostenibile inizia a insinuarsi anche tra i più riluttanti esponenti politici del Paese, oltre che tra le maglie di una popolazione già provata dal cambio di paradigma repentino imposto dalla pandemia.
La siccità che ha imposto misure di risparmio idrico e di razionamento dell’acqua, la secca del Po, le scorte di gas che rischiano di non bastare in vista dell’inverno, l’aumento anomalo delle temperature, lo spettro di nuove pandemie e la guerra sono spie di un processo di decadimento i cui effetti sono diventati, loro malgrado, evidenti. Senza contare la conseguente contrazione del Pil per un’economia, come quella italiana, che si stava giusto riprendendo dalla crisi cominciata con i lockdown del 2020.
In questo senso i momenti di incontro e di discussione rappresentano, per ora, l’unico canale aperto alle nuove generazioni, perché generano l’impressione di partecipare ai processi decisionali, anche se di straforo, e soprattutto accrescono la consapevolezza che l’esistenza, in qualunque modo verrà gestita e pensata, sarà molto diversa da quella di coloro che le hanno precedute. Ad esempio, la tavola rotonda dal titolo “Transizione ecologica, dipendenza energetica e crescita economica”, promossa dal centro di ricerca in collaborazione con l’Università degli Studi di Brescia.
Erano presenti Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, Alessandro Lanza, il direttore della Fondazione Enrico Mattei, Michael Spence, Premio Nobel per l’Economia e professore emerito presso l’Università di Stanford e Renato Mazzoncini, amministratore delegato di A2A. Secondo loro, la prospettiva di un’economia carbon neutral entro il 2050 è sostanzialmente impossibile.
Il problema principale, secondo Lanza, è rappresentato da un disallineamento internazionale sugli obiettivi di decarbonizzazione tra le grandi economie del mondo – i paesi dell’Ocse e la Cina – e tra quelle emergenti – India, Brasile e Indonesia, giusto per citarne qualcuna –, destinate a crescere nei prossimi decenni e ad aumentare le loro emissioni. «Per giunta», ricorda Lanza, «nonostante i progressi tecnologici in ambito green fatti fin qui, i combustibili fossili continuano a rappresentare l’80% del consumo energetico totale dell’Europa».
Nonostante la cop26, l’ultima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite tenutasi a Glasgow, abbia inserito per la prima volta il carbone all’interno dei tagli necessari per ridurre velocemente le emissioni, non sono citati né il petrolio, né il gas, che pure di quelle emissioni rappresentano il 60%. Senza contare che l’India ha già avvertito che si impegnerà a ridurre, ma non a eliminare i combustibili fossili e il Nord America, insieme al Medio Oriente, all’Australia e alla Cina, ha già finanziato una serie di grandi progetti di estrazione di giacimenti la quale, secondo una recente inchiesta del Guardian sarà colpevole di una produzione di gas serra equivalente a dieci anni di emissioni di anidride carbonica della Cina.
Anche per questo Michael Spence ha confermato scetticismo rispetto alla possibilità di un mondo completamente decarbonizzato, ma si è detto tuttavia fiducioso nei confronti dell’economia europea, nel caso in cui si mostrasse coesa e determinata.
La vera problematica non riguarda tanto l’indirizzo di investimenti necessari per combattere i cambiamenti climatici a livello mondiale – stimati tra 3/4 mila miliardi di dollari -, quanto la nota mancanza di volontà politica nel produrre i giusti incentivi all’interno di una economia che, almeno per i prossimi due o tre anni, sarà verosimilmente caratterizzata da bassi livelli di crescita e dall’aumento dei prezzi.
Da mesi l’ONU ha adottato una politica ben precisa: informare chi prende le decisioni e in generale il mondo dell’industria energetica della certa probabilità di morire a causa del riscaldamento globale. L’Ipcc, nel suo ultimo report, ha sottolineato che bisognerebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica della metà entro il 2030 per tentare di assicurare un futuro vivibile a tutti. Altro che il 2050.
In questo senso, il ministro Giovannini ha suggerito l’avvento di un nuovo approccio per misurare appagamento e soddisfazione collettivi, lontano da sterili metriche economiche. «Uno stile di vita più sostenibile – come ad esempio l’abbandono delle macchine in favore delle biciclette per la mobilità urbana – mostrerebbe quasi sicuramente un calo della produttività, ma questo non comporterebbe un peggioramento del benessere dei singoli cittadini, anzi».
La transizione ecologica non rappresenterà mai un successo se si focalizzerà sull’andamento dell’economia. L’unico, vero risultato è garantire un futuro al pianeta e a coloro che lo abitano.
Anche il tetto al prezzo dell’energia di cui oggi si discute animatamente – il cosiddetto price cap – risolverebbe solo una parte dei problemi legati al mercato energetico: tutelerebbe i consumatori a fronte delle impennate cui abbiamo assistito negli ultimi tempi, ma la conseguenza diretta di prezzi di petrolio e gas troppo bassi è un disincentivo a investire nelle rinnovabili.
Sottolineando il persistente disallineamento tra gli obiettivi climatici e le politiche in atto per il loro raggiungimento, Mazzoncini richiama alla necessità di aumentare non solo il livello di elettrificazione del sistema energetico mondiale – condizione non sufficiente per il lontano miraggio dell’abbandono delle fonti fossili –, ma anche quello della produzione di altre fonti di energia, come il biometano e l’idrogeno.
L’equazione tra produttività e transizione ecologica è risolvibile grazie a un’altra transizione: quella digitale.
Gli episodi catastrofici di questi ultimi anni hanno perlomeno il privilegio di incentivare le scommesse all’interno di nuovi campi.
L’Italia ha recentemente investito circa il 25% dei fondi del Pnrr pari a 40 miliardi di euro in questa direzione. La speranza di un’economia pienamente digitalizzata, condivisa anche da Spence, è che conduca a una maggiore produttività e contemporaneamente a minori emissioni.
La verità è che un’autentica rivoluzione ambientale solleva inevitabilmente continue, spinose questioni: la crescente pressione sulle risorse minerarie globali, gli eventuali impatti dell’intelligenza artificiale, l’introduzione di un reddito minimo universale, l’elettrificazione dei veicoli e il ruolo della divulgazione e dell’informazione per promuovere un cambio di mentalità netto e inesorabile.
Come sostiene Naomi Klein, autrice del bestseller “No Logo. Economia globale e nuova contestazione”(Baldini&Castoldi), siamo schiavi dell’ideologia imperante che posticipa il momento di prendere decisioni in merito alla questione climatica. Concorrerebbero gli interessi di troppe élite nonché le abitudini radicate di un’intera popolazione, che consuma, compra, viaggia, vuole spendere ciò che guadagna e mangiare ciò che preferisce. Ecco perché non abbiamo intrapreso le azioni necessarie e non le intraprenderemo mai, se non ci affrettiamo ad alzare la posta in gioco, ovvero a pretendere serie azioni politiche da parte dei capi di Stato.