Checkmate, Boris. Arruffato e ritardatario anche nei momenti migliori, per il discorso più difficile della sua carriera Johnson spacca il secondo. Il primo ministro varca la porta nera di Downing Street, quella sognata per una vita, alle 13.31 in punto. Sembra un sosia, anche per le parole misurate, le poche sbavature. Non si sottrae al cerimoniale di una democrazia vecchia di secoli che però funziona. Non ha ceduto a tentazioni trumpiane: o, meglio, è stato un golpista solo immaginario, quando ha cercato di restare aggrappato al potere nonostante le defezioni di massa e le pressioni dei superstiti.
Recita la parte dello statista, il momento lo richiede. È un sottogenere della politica britannica: prendere atto (un po’ in ritardo, in questo caso) nel momento in cui un ciclo si è chiuso, lasciare la carica e gli affari in ordine, prestarsi alla transizione, mentre nel partito conservatore – che per archiviare le sue stagioni conosce un solo modo, il regicidio – i congiurati ricominciano a dividersi, e scannarsi, nella corsa alla successione. La rabbia traspare, eppure lui ha quell’aria da non è successo davvero. L’ultimo atto l’ha subito, più che viverlo da protagonista, ma al di là del fair play proverà fino all’ultimo a cambiare il finale, o ad allungarlo il più possibile. Come in una «soap opera di cattivo gusto», il copyright è della premier scozzese Nicola Sturgeon, che invoca le elezioni con vista su un secondo referendum di indipendenza.
Con la Regina Elisabetta, Johnson aveva esaurito il credito. Il colloquio è stato decisivo. Si era già dovuto scusare con lei perché la movida illegale nei palazzi del governo non si era fermata neppure alla vigilia dei funerali del principe Filippo e, prima, perché la suprema magistratura aveva contestato la chiusura del Parlamento, fatta controfirmare alla sovrana dai conservatori per imporre le loro condizioni di uscita dall’Unione europea. Ha dovuto cedere: il numero di ministri, minori e maggiori, che si era dimesso aveva superato la cinquantina. Nonostante l’elefantiasi degli esecutivi britannici, a Tony Blair era bastato ricevere una trentina di «lettere» per arrendersi. Meno di 20 e David Cameron e Gordon Brown hanno capito che era finita.
Andarsene con una missiva formale è un altro dei particolarismi un po’ passatisti del Regno Unito. Come il cerimoniale della rinuncia: la posizione da cui ci si dimette è quella di leader dei conservatori, che dà diritto a entrare a Downing Street. Finché i Tories non avranno scelto il prossimo capo, Boris non si muoverà. Almeno, questo è quello che vorrebbe fare lui. L’ha detto davanti a reti unificate: l’esecutivo andrà avanti finché il congresso, magari con tempistiche accelerate, non avrà incoronato il futuro inquilino, che riceverà tutto il suo sostegno.
Dall’opposizione, i laburisti minacciano una sfiducia in aula, a Westminster, per sfrattarlo se non se ne va subito da solo. Due vecchie glorie dei conservatori come Theresa May e John Major gli intimano di mollare, di «non mettere in pericolo la democrazia». La base potrebbe tollerare una sua occupazione abusiva solo il tempo necessario a riorganizzare le truppe. Il voto, sulla carta, è lontano, a gennaio 2025. Andarci in anticipo, dopo il crollo nei sondaggi, sarebbe un naufragio. Johnson farà altri danni al brand dei conservatori da qui all’autunno? Due mesi sono un’eternità, ma la guerra non permette un vuoto di potere ai vertici di una potenza del G7.
Johnson è il più fedele e attivo alleato dell’Ucraina, che già lo rimpiange, e l’arcinemico della Russia, che ora festeggia. Nei mesi del conflitto, è riuscito a ricostruirsi una credibilità internazionale malgrado i disastri domestici. La Global Britain è rimasta uno slogan, ma forse è sulla Politica Estera che il premier dimissionario si è mosso meglio. In una telefonata all’amico Zelensky ha promesso: il sostegno non verrà mai meno, continuerò a lavorare per sbloccare i corridoi del grano. Lo spazio di manovra è però ridimensionato, come i suoi poteri ad interim. È quanto hanno promesso i ministri che hanno colmato i vuoti della great resignation degli ultimi giorni. Scorrendo l’account Twitter ufficiale di Downing Street c’è una rassegna di volti, più simile a come le squadre di calcio comunicano gli innesti del calciomercato che non a un nuovo assetto governativo.
La faida adesso trasloca dai corridoi al corpo del partito, dove tutti i big spergiurano che non si candideranno, per non scoprire le carte. Mentre il pubblico è distratto dal «sacrificio» del leader, è l’ora delle grandi manovre e dei tradimenti. Con questa accusa, Johnson ha voluto togliersi la soddisfazione di licenziare l’ex alleato e compagno di Brexit, Michael Gove. Anche il lessico di questo finale è quello della farsa, del partygate, dell’infedeltà di cui il primo ministro era specialista, come nei divorzi, fossero ex mogli o l’Europa. La domanda è se gli addii saranno sufficienti a restaurare la reputazione di chi li ha commessi. E quanto ci si può fidare di un mentitore seriale.
Boris Johnson sognava di ripercorrere le orme del suo idolo, Winston Churchill. O di restare al governo a lungo come Margaret Thatcher. Altro che un decennio, la sua parabola politica si chiude come una delle più corte degli ultimi cinquant’anni, dopo il laburista Gordon Brown. D’altronde sia Churchill sia Thatcher erano stati costretti alle dimissioni dal partito, che divora – questo sì – solo chi poi resta nella sua storia. Resta ancora qualche pagina da scrivere, Boris, e sarà pirotecnica come tutte le altre.