Fino a che punto un Paese può assuefarsi agli scandali? Quando è esploso l’ultimo, per le presunte molestie sessuali del vicecapogruppo conservatore Chris Pincher, il primo ministro Boris Johnson aveva già perso ogni credibilità. Da tempo. Il vero miracolo è che sia rimasto in sella finora. Forse è per questo che non vuole mollare, lo deve a una scommessa con se stesso, ma è rimasto l’unico a crederci. Isolato. Non l’ha scalfito una serie di pasticci, menzogne e figuracce che avrebbe affossato leader con un rapporto meno conflittuale con la verità. Il partito lo scarica un pezzo alla volta mentre lui non si rassegna al game over.
L’esecutivo ha subìto così tante defezioni, più una quarantina, da rendere quasi impossibile mapparle tutte. I rimpasti sono un palliativo, le promesse il solito copione per uscire dall’angolo. Quando ci finisce, Johnson dà il meglio di sé. Sono metafore abusate dalle cronache, ma più che un pugile è sempre stato un giocatore di Poker. Il bluff elevato a ragion di Stato, a tecnica politica. Il suo governo potrebbe andare avanti solo per accanimento terapeutico e soprattutto mancanza di reali alternative, ma pure per una tenacia di cui gli va dato atto. È la temerarietà incredula di aver eluso le altre pallottole a fargli credere di poter schivare anche questa.
Nel Regno Unito, un premier può restare al potere anche se è screditato, quando ha truppe parlamentari compatte. Theresa May è stata la regola che ha confermato l’eccezione. Un mese fa Johnson era sopravvissuto alla sfiducia interna, virtualmente al riparo per un anno da un’altra mozione. Un particolare rivela più di altri che i rapporti di forza sono cambiati. È la seconda volta che Sajid Javid, ex ministro della Sanità, si dimette dal gabinetto. La prima, a febbraio 2020, era suonata come un siluramento, con il primo ministro ancora sull’onda del trionfo elettorale. Poi Javid è stato riabilitato, serviva far dimenticare le effusioni di Matt Hancock, involontario trailer del futuro Partygate: i conservatori in preda all’edonismo mentre raccomandavano la prudenza agli inglesi.
La stessa mossa, con identico protagonista, due anni dopo scatena un «terremoto». La dice lunga sullo stato di salute della leadership di Johnson. Stavolta, però, se ne va anche Rishi Sunak, il cancelliere dello Scacchiere – la casella che Javid ricopriva quando si era fatto da parte nel 2020, corsi e ricorsi della storia – che era considerato tra gli alleati del premier, ma si è defilato sempre di più, fossero le missioni lontano da Londra e dai riflettori nelle ore difficili, o la fedeltà al capo confinata ai tweet di facciata.
Provare a sganciarsi ora serve sia a tornare presentabili, magari alle primarie o per traghettare il partito nel dopo-Boris, sia a smarcarsi dall’immagine tossica di un primo ministro in crisi, specie dopo un eventuale naufragio alle urne. Il sostituto di Sunak non è un tappabuchi. È stato promosso Nadhim Zahawi, simbolo di un’integrazione che funziona(va) davvero. Nato nel Kurdistan iracheno, è arrivato nel Regno Unito nel 1978. Tra i fondatori dell’istituto di sondaggi YouGov, è entrato a Westminster nel 2010. Al referendum del 2016 si è schierato per la Brexit e il suo maggiore successo è stato coordinare la campagna vaccinale, tra le prime al mondo a partire.
Anche lui si sarebbe accodato ai ministri che hanno consigliato a Johnson di dimettersi. Come gli ha anticipato Micheal Gove, gli diranno che il suo premierato è ai titoli di coda. Nello stesso giorno, si riunirà in serata il 1922 committee dei conservatori, la cui composizione deve essere rinnovata. Un mutato equilibrio potrebbe portare alla revisione delle regole, che oggi vietano di sottoporre a sfiducia un leader per due volte nello stesso anno. Sarebbe un avvertimento a Boris: se non te ne vai da solo, ti cacceremo noi. Ma tornare a quell’ordalia equivarrebbe a una sconfitta.
Gli scandali non si esauriscono alle molestie sessuali e alle feste, su cui ci siamo concentrati in Italia. Potere e corruzione. I Tories sono stati multati per non aver rendicontato correttamente la donazione con cui è stato pagata la ristrutturazione, di lusso, dell’appartamento di Johnson. Hanno cercato di cambiare i regolamenti parlamentari per salvare l’ex ministro Owen Patterson, che aveva violato le norme sul lobbismo. Senza ricordare la fuga dal lockdown di Dominc Cummings, un tempo l’uomo più potente di Downing Street, fatto fuori solo quando è entrato in rotta di collisione con la first lady.
Il new normal era diventato questo: la politica inglese è quello che succede mentre Boris Johnson deve difendersi da uno scandalo. E così sono stati offuscati i pochi «successi»: la Brexit realizzata, una efficace campagna vaccinale, il protagonismo internazionale, ritrovando il rango di potenza, sì, ma europea e la bromance con il presidente ucraino Volodymir Zelensky. Ma la pazienza, già esaurita tra gli inglesi, è finita anche tra i conservatori.
Johnson non chiede scusa, non fa parte del suo Dna. Crede sia un segno di debolezza e, quando lo ha fatto, è stato per calcolo politico, un mero strumento retorico, come sa un fine classicista come lui. Non ha fatto una vera apologia nemmeno per aver promosso Pincher nonostante fosse al corrente degli episodi che lo riguardavano. In aula, con grinta, ha detto di voler andare avanti. È l’unica direzione che conosce. Le dimissioni non fanno parte del suo orizzonte mentale, ma ha abbastanza senso del tragico per accorgersi che la ribellione tra i Tory potrebbe portare al regicidio. Il suo.