Che fine ha fatto la Global Britain? La guerra in Ucraina ha reso evidenti i ritardi sul progetto, almeno rispetto alla restaurazione del rango di superpotenza, ma ha anche dimostrato la centralità del Regno Unito per il vecchio continente. Londra ha brillato per l’attivismo al fianco di Kiev più dei governi dell’Unione europea. Se nel resto del mondo rischia un ridimensionamento e i problemi domestici si trascinano da mesi, sulla politica estera il primo ministro Boris Johnson sta cercando di capitalizzare la credibilità che gli è rimasta. La Gran Bretagna, insomma, si sta riscoprendo più europea di prima.
Il piano era recuperare la grandezza perduta. Come slogan suona(va) pericolosamente trumpiano, un’operazione fuori dal tempo. L’idea dei conservatori, e in particolare dell’ala più favorevole alla Brexit, era liberarsi dai vincoli di Bruxelles, che in realtà non è mai stata in grado di esprimersi con una voce univoca, per tornare rilevanti a livello geopolitico. Ciò passa da due direttrici: ricostruire la «relazione speciale» in crisi con gli Stati Uniti e accrescere l’influenza in un quadrante ritenuto decisivo nell’immediato futuro, l’Indo-Pacifico.
In parte, questo riposizionamento è riuscito, per esempio grazie alla nascita dell’Aukus (l’alleanza con Australia e Stati Uniti in chiave anticinese) nel settembre 2021, con Londra però comprimaria di Washington più che protagonista. Un ruolo rivestito, invece, in Europa nelle settimane di escalation sfociate nell’invasione russa del 24 febbraio. A Johnson indossare l’elmetto, metaforico, di “premier di guerra” serviva a farsi perdonare i disastri e i fallimenti dell’esecutivo, certo, ma quei risultati sono stati la prova di come il Regno Unito riesca a ritagliarsi un peso specifico – che sulla scena internazionale non ha più o non ha ancora – solo quando si muove sul fronte da cui voleva disimpegnarsi, l’Europa.
Anni di spending review, come ha scritto recentemente Politico, sono costati a Londra un arretramento diplomatico nel mondo. La tendenza non sembra destinata a invertirsi a breve. Uno dei casi più emblematici è la vendita dell’ambasciata inglese a Tokyo, un’istituzione presidiata per centocinquant’anni. È stata ceduta metà del palazzo, con i proventi sono stati acquistati pannelli solari per risparmiare sulle bollette. Schemi simili – alienazioni o traslochi in sedi più moderne però meno prestigiose – sono stati usati a Parigi, Pechino, Washington e Bangkok. Le logiche di bilancio contano, ma il soft power è un’altra cosa.
Le mosse immobiliari riflettono un trend più ampio. Il governo ha ridotto del 5% i fondi del Foreign Office, il ministero degli Esteri, rispetto al 2019/20. Anche gli stanziamenti a favore dello sviluppo internazionale, un vanto e una tradizione per Downing Street, scenderanno dallo 0,7 allo 0,5% del Pil. Johnson ha anche orchestrato la fusione dei due dipartimenti che dirigevano l’agenda globale di Sua Maestà: il Foreign and Commonwealth Office e il Department for International Development. L’obiettivo era razionalizzare le spese e generare sinergie, come si direbbe in aziendalese, ma ha causato una concorrenza interna deteriore e tagli allo staff.
A parte l’ultima riorganizzazione, non è tutta colpa di BoJo. Molti riassestamenti sono cominciati prima del suo premierato e Liz Truss, l’attuale titolare degli Esteri che alcuni considerano la prossima leader dei Tories, è la quarta ministra in meno di quattro anni. Nonostante il rilancio internazionale fosse uno degli architravi del programma valso una maggioranza mancata dal 1987, la casella non è ambita: chi la occupa o viene silurato nei rimpasti di gabinetto perché ha deluso, oppure la molla appena può riciclarsi in ruoli più media friendly.
Gli analisti tendono a sospendere il giudizio: la potenza di fuoco della Global Britain non andrebbe misurata a ridosso, si fa per dire, della Brexit, ma sul lungo periodo. In questi mesi del 2022, si può però registrare un dato, paradossale solo in apparenza. Johnson ha finito, chissà quanto suo malgrado, per rappresentare il volto dell’Europa unita nel confronto con la Russia – chiedere al presidente ucraino Volodymyr Zelensky per conferme. È volato a Kiev sia prima dell’aggressione di Vladimir Putin sia a guerra in corso. La capitale attende ancora gli omologhi Olaf Scholz ed Emmanuel Macron, così solerte sulla linea telefonica del Cremlino.
Il primo ministro ha firmato trattati, con impegni di difesa reciproca, con Finlandia e Svezia poco prima che le repubbliche scandinave facessero domanda di adesione al Patto atlantico. Londra ha stanziato 1,6 miliardi di dollari per fornire armi all’Ucraina e ha promosso una Joint Expeditionary Force: una sotto-alleanza militare in orbita Nato che, oltre a Helsinki e Stoccolma, ha reclutato Olanda, Norvegia, Estonia, Lettonia, Lituania e Islanda. Sembra un embrione dell’esercito europeo, sogno mai realizzato di Bruxelles malgrado dibattiti decennali. È un’ironia della Storia che a guidarlo sia il Regno Unito uscito dall’Unione europea.
Se Johnson risalta è anche per i demeriti degli Stati membri. Su tutti, l’attendismo sul sesto pacchetto di sanzioni a Mosca. L’assistenza militare garantita dall’Eliseo a Kiev vale meno della metà di quella offerta dalla piccola Estonia, 105 contro 202 milioni di dollari. Il quotidiano britannico solleva una provocazione: senza la mobilitazione anglosassone, di Stati Uniti e Gran Bretagna, forse l’Ucraina avrebbe già perso la guerra. Per Londra è cruciale recuperare l’autorevolezza perduta in Afghanistan, insieme all’amministrazione democratica e all’Occidente.
Il conflitto in Ucraina è stato uno stress test. Come sottolinea un’analisi di Carnegie Europe, la Global Britain oggi esiste solo sulla carta. La parola potrebbe presto svuotarsi e diventare la parodia di se stessa, come avvenuto per altre formule, la «terza via» di Tony Blair e la «Big society» di David Cameron. Ancora manca un manifesto, per non dire un’idea precisa di cosa debba incarnare. Lo segnala il Foreign Policy Centre, suggerendo a Londra di farsi guardiana della causa della democrazia liberale in un pianeta dove avanzano gli autoritarismi.
La crisi ha anche congelato le rese dei conti in patria. I conservatori hanno rimandato le congiure per detronizzare Johnson, anche se pure questa settimana sono uscite sue foto festaiole: un brindisi nel novembre 2020, tempi di nazione in lockdown e appelli accorati agli inglesi. L’opposizione laburista sembra vittima dello stesso sortilegio, è paralizzata: il leader Keir Starmer giura che si dimetterà se verrà multato, perché anche di lui è circolato uno scatto con una birretta in mano a una «riunione di lavoro». Virgolettato simile alle difese autoassolutorie di Downing Street.
Intanto il Paese è in stallo, travolto dall’inflazione dopo aver registrato l’anno scorso la crescita economica migliore del G7. Secondo i sondaggi, se si votasse oggi ne uscirebbe un «hung Parliament», un parlamento dove nessuno ha la maggioranza. Una nazione dove la distanza tra la capitale e la periferia si incrina sempre di più: non solo verso la Scozia e l’Irlanda del Nord con le loro spinte autonomistiche, anche rispetto alle altre città dell’ex impero. Prima di salpare alla riconquista del Commonwealth, la classe politica inglese deve evitare il naufragio in patria. E non è detto che sia un’impresa meno ardua.