Lo specchio della guerraIl rischio recessivo di inflazione e l’imperfezione delle democrazie

L’invasione dell’Ucraina, arrivata subito dopo la pandemia, ha generato una recessione causata dalla carenza di offerta e accompagnata da una crescita dei prezzi. Adesso i Paesi europei si trovano in una situazione del tutto eccezionale, con pochi strumenti e know-how per uscirne adeguatamente

AP/Lapresse

Il testo qui presentato è stato letto dall’autore martedì 19 alla Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Oltre a Riccardo Illy, sono intervenuti John Coetzee, Petros Markaris, Sandro Veronesi e Edoardo Nesi.

Annunciata come la stagione della normalità, della ripresa e della fine delle restrizioni, l’estate 2022 sfugge in realtà a qualsiasi definizione: sono mesi di difficile lettura, caratterizzati da una parola chiave: incertezza.

Fare previsioni dell’autunno che verrà sembra un esercizio difficile e rischioso: troppe le variabili, la pressione delle circostanze, l’insorgenza di nuove emergenze.

La Milanesiana 2022 individua nella Guerra e nelle Omissioni due concetti chiave d’ispirazione e di analisi. Entrambe le parole – guerra e omissioni – ci riconducono al cuore della grande incertezza che stiamo vivendo e alle ragioni delle incognite dell’autunno. Entrambe ci allontanano da quel ritorno alla normalità, che per molti aspetti sembra ormai diventata più una comfort zone mentale, un’espressione ricorrente, quasi cristallizzata, svuotata di significato reale, in cui normalità comincia ad assumere i contorni nostalgici del “mondo di ieri”.

Non abbiamo fatto in tempo a entrare nel “dopo” pandemia – va ricordato, tuttora in corso – che nuove emergenze si sono materializzate, chiedendo nuove risposte. Le emergenze innescate dalla pandemia (una su tutte, l’approvvigionamento delle materie prime) si sono sommate a quelle innescate dalla guerra; energia, acciaio, grano, umanitaria. Con gli impressionanti numeri sui rifugiati, che l’Europa non conosceva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. A queste, se ne è aggiunta un’altra, a lungo annunciata, temibile, imprevedibile e potente, come tutte le cose naturali: la mancanza d’acqua.

Pure, sembra essere diffuso un atteggiamento che celebra quest’estate con una certa euforia, da un lato ampiamente giustificata dal lungo periodo di restrizioni, dall’altro un poco straniante rispetto ai segnali inequivocabili e certi che già colpiscono il nostro status quo materiale: il costo dell’energia, l’inflazione, la prospettiva di recessione, i dati gravissimi sulla disponibilità d’acqua e sulle nostre coltivazioni.

Una leggerezza che ci riporta in qualche modo alle “omissioni” del titolo di questa edizione, qui intesa come un atteggiamento evitante, che istintivamente protegge la consuetudine dei nostri beni – materiali e immateriali – e guarda alle emergenze, globali e locali, con un certo distacco, come se non ci riguardassero.

Come se non dovessimo fare uno sforzo per coglierne causa e portata, anche quando non ci toccano direttamente (ancora). Come se non dovessero avere un impatto diretto sulle nostre vite, sia individuali che collettive, e questa, di per sé, fosse un’ottima ragione per non interessarci, capire, approfondire – omettere, in una parola.

È vero quindi che gli scenari di questa estate 2022 sono definiti senz’altro dalla guerra e dalle sue incognite, ma anche dalle tante omissioni che ci hanno portato sino a qui: non solo azioni mancate, o tardive – basti pensare ai clamorosi ritardi in termini di responsabilità ambientale e generazionale – ma quasi una sorta di riluttanza a cercare di riconnettere eventi tra loro collegati e il cui intreccio non dà tanto la certezza di previsioni per il futuro, quanto piuttosto una nuova fotografia della nostra (probabilmente nuova) realtà, delle nostre responsabilità e predisposizione al cambiamento.

Tra le molte lezioni della pandemia, vi è sicuramente quella di una riscoperta della fragilità e vulnerabilità, non solo di noi come individui, ma dei nostri sistemi – di cura, di welfare, di economia, di ricerca scientifica, di logistica.

Una finestra aperta su uno scenario sconosciuto, o perlomeno dimenticato, a tante generazioni: quello della provvisorietà del benessere e delle risorse; la debolezza di modelli considerati acquisiti – come il diritto alla salute o il rapporto di una comunità con la scienza, o di una comunità con i soggetti più fragili.

Come una lente d’ingrandimento, la guerra in corso in Ucraina ha reso visibili, con un’accuratezza che non ammette omissioni, l’imperfezione e incompiutezza delle nostre democrazie, le incongruenze, le debolezze e i movimenti dei nuovi equilibri internazionali.

Sicuramente, tra democrazie imperfette e Paesi autarchici si gioca una partita che riguarda il motore del nostro sviluppo, così come concepito fino ad oggi (energia), e che riguarda la nostra stessa idea di sviluppo. Una visione “aumentata” che invita a osservare la realtà senza rimozioni, individuando le fratture che mettono a rischio quel bagaglio di valori acquisiti su cui è stato costruito il modello europeo di “normalità” – i diritti individuali, la pace, la mobilità delle persone e delle cose.

Le sorti della guerra in Ucraina sono ancora incerte dopo i successi russi nella zona del Donbass e l’arrivo delle nuove forniture di armi, soprattutto americane, all’esercito degli occupati. I negativi effetti economici si stanno invece consolidando soprattutto in Italia, che essendo il secondo Paese più industrializzato d’Europa e il più dipendente dal gas russo subisce un effetto sinergico dall’aumento del costo dell’energia e dalla carenza di alcune materie prime, in primis l’acciaio ma anche vetro, grano, olio di girasole. Da più parti (Fmi, Governo, Confindustria) si comincia a ipotizzare una, seppur “tecnica” (termine forse usato per addolcire la pillola) recessione.

Come la congestione logistica e produttiva (vedi microchip per l’automotive) post–pandemia ha insegnato, il ritorno alla normalità non è immediato. Richiede anzi mesi e mesi di tempo; qualora (fatto per nulla scontato) la guerra in Ucraina cessasse nel giro di qualche mese, ci vorrebbe un periodo molto più lungo per tornare ai prezzi dell’energia pre–guerra e alla disponibilità delle materie prime (ad esempio l’acciaio, per produrre il quale andranno appena ricostruite le acciaierie ucraine distrutte dai russi).

Il conflitto ci ha insegnato di quante materie prime l’Ucraina sia uno dei principali fornitori: acciaio, ghisa, caolino, grano, mais, olio di girasole, solo per citarne alcune; la carenza o l’eccessiva onerosità delle materie prime ha indotto parecchie imprese (ceramica, acciaio, carta, macchinari) a ridurre o cessare la produzione, aspettando tempi migliori. Ci metteranno diversi mesi per recuperare la produzione persa.

Nel frattempo l’effetto domino produrrà i suoi effetti recessivi aggiuntivi; se, per citare un caso noto, mancano le bottiglie e i cartoni, si fermano anche le industrie alimentari che usano questi semi–lavorati.

La recessione sarà alimentata sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda: dobbiamo quindi aspettarci nei prossimi mesi la carenza di certi prodotti e i loro prezzi stabilmente più alti. in un clima di grande incertezza quantomeno gli investimenti, aziendali e privati, subiranno una frenata; il costo dell’energia e la carenza di materiali continueranno ad alimentare l’inflazione.

Si realizzeranno condizioni, mai manifestate in precedenza, che io definisco di rec–flazione, vale a dire una recessione causata dalla carenza di offerta e accompagnata da alta inflazione – un termine che mi sembra più accurato di quello di stagflazione, spesso citato di questi tempi.

Non vorremmo essere, in questo caso, nei panni di Christine Lagarde; qualunque mossa della Bce produrrebbe un danno; o recessivo o inflattivo.

Del resto, guardando al nostro Paese, pensiamo come in questa situazione alcune misure attuate in momenti affatto diversi dal Governo, come gli incentivi del 110%, abbiano avuto un effetto di acceleratore di alcuni fenomeni, soprattutto inflattivi.

Nel senso che hanno fatto e continuano a far lievitare la domanda di materiali (acciaio, cemento, vetro, ceramica, prodotti metalmeccanici) necessari all’edilizia e già colpiti dalla carenza e dal conseguente aumento inarrestabile dei prezzi. Viene da chiedersi se non sia più saggio sospendere l’efficacia di quelle norme per ripristinarla quando prezzi e disponibilità dei materiali (oltre che della manodopera, pure carente) saranno tornati alla normalità.

A distanza di qualche settimana dall’inizio della guerra, Mario Draghi in conferenza stampa (era l’11 marzo) affermò «Dobbiamo prepararci a un’economia di guerra», frase lapidaria, non allarmistica ma densa di significato: una raccomandazione tempestiva a considerare come reale il rischio di dovervi ricorrere.

Il Governo, in una economia di guerra, potrebbe disincentivare, se non razionare, l’acquisto di certi beni o favorire certe categorie a danno di altre. Dopo il terremoto del 1976, all’inizio della ricostruzione, l’Arcivescovo di Udine Alfredo Battisti disse: prima le fabbriche, poi le scuole e poi le chiese. Il messaggio era chiaro; andava riavviata prima possibile l’economia e l’occupazione, per le quali non c’erano sedi alternative.

Se la guerra dovesse durare a lungo, il Governo potrebbe decidere, come fece Mons. Battisti, di privilegiare le industrie a scapito delle famiglie; per esempio riducendo la temperatura massima (o aumentando quella minima d’estate) negli edifici residenziali per liberare energia a favore dell’industria. Salvaguardando così economia e occupazione.

Sin dall’inizio del conflitto, il tema del gas è diventato dominante, sia come preoccupazione generale che come misura di ritorsione nei confronti della Russia.

Diversi osservatori economici sostengono che l’unica misura in grado di mettere finanziariamente in ginocchio la Russia, costringendola al cessate il fuoco, sia il bando europeo all’importazione del petrolio e del gas russi.

A inizio conflitto le condizioni erano favorevoli: è ben vero che nel medio termine ci sarebbe stato un impatto economico anche i Paesi dell’Unione europea, ma nell’immediato – giocando sulle scorte di gas, sull’arrivo della stagione calda e sulla riattivazione delle centrali elettriche a carbone – i danni sarebbero stati contenuti. Mentre i benefici potevano essere importanti: il cessate il fuoco e poi l’accordo fra Russia e Ucraina, possibilmente mediato dalla UE.

Quello del gas presenta, oltre al problema della rigidità delle infrastrutture e della più difficile sostituzione dei fornitori, aspetti giuridici complessi; legati alla durata e alle caratteristiche dei contratti, del tipo take or pay. Che in sostanza prevedono che la fornitura venga pagata a prescindere dalle quantità di gas ritirate.

Non ritirare e poi non pagare il gas esporrebbe gli importatori europei a cause miliardarie intentate da Gazprom, con elevate probabilità di vittoria di quest’ultima. Anche qui, le circostanze sarebbero state favorevoli: la pretesa di Putin di far pagare le forniture in rubli, in violazione dei contratti che prevedono invece il pagamento in dollari, offriva una soluzione sul piatto d’argento.

Il mancato ritiro (e pagamento) del gas non sarebbe stata una decisione unilaterale dei paesi europei in violazione dei contratti, bensì la risposta a una ingiustificata pretesa di eseguire il pagamento in rubli.

Si tratta, ad ogni modo, di eventi ormai superati: l’Europa non ha saputo azzardare una risposta di questo tipo nei mesi scorsi, e oggi, nel cuore dell’estate, si sta sempre più preparando al taglio del gas deciso da Putin nel momento a suo avviso più dannoso per l’Europa.

Un banco di prova è molto vicino: si teme che i lavori di manutenzione di Nord Stream (il grande gasdotto con il quale la Russia esporta il gas in Europa), e per i quali si prevede una sospensione o una riduzione della fornitura di gas per alcuni paesi europei, possano segnare l’inizio di una nuova fase, più spregiudicata, della strategia della “tensione” in tema di energia, su cui l’Europa si sta giocando un’importante partita di credibilità internazionale, oltre che di competizione interna, tra i diversi Paesi per assicurarsi forniture in altre parti del mondo.

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