Un viaggio sentimentaleEugenio Scalfari, il cestino di carciofi e quell’Italia di un tempo più adulta di oggi

Del fondatore di Repubblica in tanti si sono concentrati a criticare l’egolatria o a celebrare i successi, ma la sua leggenda privata è stata costruita anche su piccole cose irrilevanti, che però dicono molto su di lui e, forse, ancora di più su di noi

Mi ricordo solo le irrilevanze, è un dono, è una maledizione: mi sembrano fondamentali solo quelle. Primo flashback. Scalfari intervistato da Minoli che, a domanda sul Mondo di Pannunzio, dice che a quei tempi nei giornali mica c’era tutto l’opinionismo di ora. «Ora» è il 1981. Secondo flashback. Un comunicato stampa, nel 2012, in cui Antonio Ricci si lagna perché, nel riportare che non sono riusciti a consegnargli il Tapiro, l’Ansa non dà conto del fatto che, per evitare Staffelli, Scalfari avrebbe imboccato una strada contromano, essendo evidentemente Scalfari un potere forte e Striscia altrettanto evidentemente no.

Qualche mese fa molti lettori con memoria da pesci rossi hanno scoperto, allorché ripubblicato sul sito di Repubblica, un incontro del 1996 tra Eugenio Scalfari, Vittorio Gassman, e Marcello Mastroianni. Era ovviamente un pezzo stupendo: Monicelli che si affaccia, li liquida come «tutti vecchi» e se ne va, era vero? O era un guizzo creativo, il prodotto del vanto scalfariano di non prendere appunti durante le interviste, vanto che non poteva non essere una rivendicazione dei margini di sceneggiatura?

Pensa Mastroianni e Gassman con un intervistatore che si sposta e ci lascia guardare il film. Pensa che spreco. Alla fine del secolo scorso andava molto di moda prendere in giro Scalfari per il suo ego sovradimensionato. Il che faceva ridere, ma non di lui: di chi pensava di poter usare contro Scalfari l’egolatria; contro Scalfari, un cui libro s’intitolava “Incontro con io”.

Peraltro sarebbe interessante (ma crudele) ricostruire i traguardi di quelli che si sono prima o poi sentiti nella posizione di poter sbeffeggiare Scalfari, uno che a cinquantun anni si è inventato Repubblica (cioè: si è inventato un pubblico che fin lì nessuno si era preso il disturbo di codificare, «il cosiddetto italiano medio che si crede colto e vuol sentirsi alla moda», come disse qualcuno a proposito dei lettori di Fruttero&Lucentini).

Ma ora basta parlare di Scalfari: parliamo di me.

È più o meno il 1994 (l’anno di “Incontro con io”: la vita è sceneggiatrice) quando mi presentano quella che per qualche tempo sarà la mia più cara amica. Vive, a Roma, in un bellissimo appartamento al ghetto, che le ha passato sua zia, una donna senza figli che ha una relazione di lunghissimo corso col marito d’un’altra.

Prima di trasferirsi altrove, la zia abitava lì e, quando quel signore andava a trovarla, mi raccontava la mia amica, si scocciavano a uscire a cena. La casa aveva le finestre su tre lati, il terzo era su una piazzetta dove un famoso ristorante fa da sempre dei deliziosi carciofi alla giudia. La coppia clandestina calava un cestino dalla finestra, e il ristoratore lo riempiva di carciofi. Era una leggenda che la mia amica elaborava per me che la ascoltavo incantata? Era la leggenda di sé stessa che la zia le aveva inculcato?

La coppia clandestina naturalmente non era affatto clandestina: il Novecento italiano era un’epoca in cui l’adulterio era un secondo matrimonio; da Mastroianni a De Sica, era pieno di uomini che avevano relazioni stabili, anche con figli, senza mai divorziare. Tutti sapevano tutto: eravamo più colti, più scettici, eravamo una società adulta. La clandestinità veniva buona giusto per drammaturgia: cinquantacinque anni fa Pietro Germi diresse “L’immorale”. Ugo Tognazzi alla fine moriva per la fatica di star dietro a due ménage.

È il 2012, e scrivo un libro sull’adulterio all’italiana. La storia del cestino di carciofi aspettava da quasi vent’anni di venire raccontata, a proposito del labile confine tra clandestinità e ufficialità, adulterio e matrimonio. Quando la inserisco nel capitolo sull’importanza della casa coniugale, la zia della mia amica è già da quattro anni la moglie dell’uomo del cestino di carciofi, che rimasto vedovo l’ha sposata.

È il 2014, e su quel libro, “I mariti delle altre”, m’intervista un settimanale americano. Chiacchieriamo, spiego, Fellini, il direttore di Repubblica, mio padre, Mitterrand, l’Italia, la Francia. L’intervistatrice d’un Paese accuratamente mai adulto trasecola. Giorni dopo mi scrive, l’ufficio legale è terrorizzato dall’imminente pubblicazione e pretende riscontri, non sarà diffamazione dire che Mastroianni tradiva la moglie? Secondo me no, considerato che lui e Catherine Deneuve hanno avuto una figlia. E Scalfari, questa cosa che sia stato anni con un’altra chi la dice? La dice lui, in un saggio nel Meridiano in cui hanno raccolto le sue opere. Del cestino di carciofi no, del cestino di carciofi lo dico io: sarà diffamatorio?

«Fu l’amore per me che li tenne uniti finché vissero, e io feci tutto ciò che potevo per tenerli insieme ed evitare una separazione che avrei vissuto come una catastrofe. Ed è nato il triangolo, sotto il cui segno si è poi interamente scandita la mia vita». Scalfari che parla dei suoi genitori, Scalfari che parla dei carciofi, Scalfari che parla di sé.

In “A sentimental journey”, il documentario girato l’anno scorso dalle figlie sull’ingombrantissimo padre, Scalfari dice del triangolo con prima e seconda moglie «io non ero al vertice», che è un’affermazione che varrebbe un romanzo. In quello stesso documentario, Natalia Aspesi dice che lei la prima moglie la capisce: «Non puoi vivere, credo, con un uomo come Scalfari e rinunciarci per gelosia».

Io però trovo rivelazioni solo nelle irrilevanze. In quello stesso documentario, Massimo Recalcati che dice: «Vostro padre mi ha raccontato di avere incontrato uno psicanalista ma di aver fatto una sola seduta. È come se lo psicanalista gli avesse detto: va bene così».

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