Mario Draghi nella sua visita ad Ankara ha discusso con Recep Tayyp Erdogan anche del dossier Libia, ma nel merito è risaltata la grande debolezza non tanto del presidente del Consiglio italiano, quanto dell’Europa e dell’intero Occidente, emersa nelle generiche frasi del comunicato finale: «Bilanciamento degli interessi comuni nel processo di riconciliazione nazionale». Questo, all’indomani di un fondamentale vertice Nato a Madrid nel quale, ben stranamente, di Libia e quadrante Mediterraneo e africano praticamente non si è discusso.
In Libia, Erdogan è un player potente e fondamentale che si garantisce il controllo armato della Tripolitania con i suoi militari, i suoi droni e la sua grande base aerea di al Watiya e la sua base navale di al Khums.
L’Italia invece, come l’Europa e l’Occidente, nonostante la Libia abbia un’importanza enorme per il flusso di immigrati irregolari e per l’approvvigionamento energetico, gioca solo la carta dell’Eni, e della sua diplomazia. Troppo poco. Soprattutto ora, nel momento in cui, in piena crisi energetica planetaria, l’alleato libico di Vladimir Putin, facendo il gioco di Mosca, blocca le esportazioni del petrolio libico, causando un balzo in avanti del prezzo del Brent.
Khalifa Haftar ha infatti chiuso i terminali petroliferi dei porti di Brega e Zueitina e la Noc, la compagnia petrolifera libica, ha dovuto inoltre dichiarare lo Stato di Emergenza nei terminali di Ras Lanuf e di Essider. L’esportazione di petrolio libico verso l’Italia e l’Europa è così calata di 865mila barili al giorno, attestandosi sui 400mila, contro il milione e trecentomila potenziali.
Nel frattempo, manifestazioni di protesta sono scoppiate in tutte le città, in Cirenaica come in Tripolitania, a causa della mancanza di corrente elettrica provocata dal blocco petrolifero.
Insomma, il solito caos libico che evidenzia il drammatico problema che hanno l’Italia, l’Europa e la stessa Nato: non hanno una strategia definita per il Mediterraneo e l’Africa. Sono semplicemente assenti nel momento stesso in cui sia la Russia (in Libia, Algeria, Mali e Repubblica Centrafricana) sia la Turchia (in Libia, Sudan e Corno d’Africa) si consolidano politicamente e militarmente sulla costa sud del Mediterraneo e sul continente africano.
È questo il contraltare scabroso dell’indubbio successo del vertice Nato di Madrid e dell’ingresso nell’organizzazione della Svezia e della Finlandia. Ingresso peraltro tutt’altro che assicurato, perché è ben difficile che questi due Paesi estradino in Turchia i settantatré militanti curdi e turchi richiesti da Erdogan.
Nel protocollo firmato a Madrid infatti i due Paesi hanno chiarito che esamineranno i dossier seguendo ovviamente le proprie norme giuridiche di garanzia così come quelle europee. Ma non pochi dei “terroristi” curdi e turchi reclamati da Erdogan non sono affatto tali. Sono intellettuali o militanti per i quali la Turchia non sarà affatto in grado di portare prove provate di atti concreti di terrorismo.
Dunque, Erdogan, una volta negate le estradizioni pretese, continuerà, come ha subito dichiarato, a tenere sotto schiaffo la Nato minacciando di non fare approvare dal proprio parlamento l’indispensabile assenso all’ingresso nell’organizzazione di Stoccolma e Helsinki. Una mossa peraltro a lui utilissima sul piano interno in vista delle elezioni turche del 2023.
Ma quel che conta e che va ribadito è che il nuovo Concetto Strategico della Nato definito a Madrid, tanto è chiara e definita nei confronti della Russia sul continente europeo, così come nei confronti della Cina, altrettanto è sfumata e del tutto carente nei confronti dell’area Mediterraneo-africana.
Poco più che un impegno generico sull’antiterrorismo, totale, incredibile vuoto, silenzio addirittura sulla Libia, e soprattutto imbarazzo per il nodo delle tesissime relazioni tra Turchia e Grecia sul tema cruciale dello sfruttamento delle risorse energetiche. È questo il grande non-detto, è questa la scabrosa contraddizione che blocca la Nato nel Mediterraneo: Grecia e Turchia, suoi membri, sono l’una contro l’altra armata sul tema strategico dello sfruttamento delle risorse energetiche dei grandi campi metaniferi del Mediterraneo Orientale. E al fianco della Grecia c’è la Francia (e Israele) e in maniera più sfumata, l’Italia.
Un conflitto talmente intricato e potenzialmente devastante da paralizzare la Nato anche dal punto di vista concettuale.
Di conseguenza la Nato, nel Mediterraneo, anche dopo Madrid, mentre le flotte e le aviazioni di Atene e Ankara si provocano nel mare e nel cielo ogni giorno, è in grado di dispiegare un dispositivo militare solo difensivo e di monitoraggio come l’operazione Sea Guardian e naturalmente la sua Standing Naval Force, che si limitano a monitorare la strabordante presenza navale Russa, che ormai ha strategiche basi militari per la sua flotta sia in Siria (Tartous e Latakia) che in Libia (Bengasi) alle quali si sommano le altrettanto strategiche basi aeree militari in Libia di Thamanent, al Jufra, al Qordabiya e Brak al Shat.
Da parte sua, l’Europa dispiega la tragicomica missione Irini col compito di impedire l’arrivo di armamenti in Libia. Armamenti che sono comunque arrivati nell’ordine di migliaia di tonnellate letteralmente sotto il naso della flotta europea.
L’ennesima prova del costo che l’Unione Europea paga per la sua incapacità strutturale di dotarsi di un Forza Armata Europea proprio nel fondamentale quadrante strategico del Mediterraneo nel quale la stessa presenza della Nato risulta paralizzata.
Nei giorni scorsi, comunque, la Nato ha svolto in Tunisia una mega esercitazione militare Phoenix 22 con vari paesi africani ipotizzando vari scenari di intervento. Un esempio tipico di quella “morte cerebrale” della Nato stessa dichiarata da Emmanuel Macron nel 2021: il dispiegamento di una grande e complessa manovra militare, del tutto avulsa però da una strategia politica chiara e definita.
Nei fatti, lo ripetiamo, quello che manca totalmente in realtà alla Nato e all’Europa sul fianco Sud e in Africa è una strategia politica, come ben si registra sempre più in quella Libia che è precipitata nel caos non per dinamiche interne, ma proprio a causa del loro sciagurato intervento.
Nel 2011 furono ben 9.700 le missioni aeree di bombardamento della Nato (Italia inclusa) che provocarono la caduta del regime di Muhammar Gheddafi. Ma, passato un anno, ucciso a Bengasi dai rivoltosi l’11 settembre 2012 l’ambasciatore americano Christopher Stevens, Hillary Clinton, Segretario di Stato così come Barack Obama decisero di disimpegnarsi totalmente dalla Libia. E così dunque la Nato che è sotto strabordante egemonia americana.
Donald Trump e Joe Biden hanno infatti continuato il disimpegno americano, e l’Europa si è rifugiata nell’illusione che la soluzione della crisi libica fosse politica e non militare. Risultato: nel vuoto di strategie occidentali Turchia e Russia sono intervenute militarmente in Libia e ora sono i player decisivi sul terreno. Non dissimili le vicende degli altri paesi africani in cui Russia e Turchia sono ormai saldamente impiantate e l’Europa, Francia inclusa, non incide per nulla.
Il tutto, mentre è straordinaria la penetrazione in Africa della Cina che vi ha investito complessivamente centinaia di miliardi, soprattutto in infrastrutture con un sostanzioso ritorno politico. Non stupisce in questo contesto che tra astenuti e contrari ben 34 Stati africani su 54 non abbiano votato nell’Assemblea dell’Onu la mozione statunitense sulle sanzioni alla Russia. Ennesimo segnale di debolezza della Nato e dell’Europa.
È questa dunque del fianco sud una falla strategica pericolosissima per l’Europa e la Nato le cui conseguenze sono e saranno sempre più pagate dall’Italia.