Tradizione e innovazioneRicomponiamoci come il cannolo

Le parole che usiamo per comunicare il cibo devono essere vere e fresche, come gli ingredienti che scegliamo per le ricette. I letti di rucola non servono: avete forse mai visto un branzino che dorme?

I frequentatori più assidui dei ristoranti non potranno fare a meno di notare menu sempre più ordinari e ripetitivi, accomunati dallo slogan “tradizione e innovazione”. Uovo poché. Carbonara a modo mio. Tataki di tonno in crosta di sesamo. All’ennesimo “cannolo scomposto Lorenzo Biagiarelli, food blogger nemico degli integralismi culinari, conia il ristorante “Sui.generis” come manifesto della banalità imperante nei menu contemporanei di tanti, troppi, ristoranti italiani (o aspiranti tali): «Rispetto della materia prima, attenzione alla stagionalità e al territorio, radici nella tradizione ma con uno sguardo alla contemporaneità e, perché no, al futuro». Il post fa certamente sorridere, forse un po’ meno i ristoratori che si sentono colpiti nel vivo, ma fa sorgere, con irriverente simpatia, una questione di fondo ben più interessante.

Perché chef e ristoratori sentono la necessità di avere una filosofia? Raccontare le proprie radici? Suscitare romantici ricordi di momenti mai vissuti? È forse il frutto dell’ansia da prestazione causata dalle domande incalzanti di alcuni giornalisti che cercano di carpire l’origine dell’ispirazione? Probabile. Ecco perché sarebbe bello ritrovare il piacere della leggerezza quando si comunica il cibo, che sia nel racconto e nella stesura di un menù, o in una recensione.

Tommaso Arrigoni, chef di Innocenti Evasioni, esorta i corsisti della prima edizione della Summer School di Gastronomika: «Scrivete di roba leggera. Siate leggeri. Quando siete al ristorante, rilassatevi, guardate il vostro compagno, non cercate il sentore di polpettone della nonna nel vino che state bevendo». Alla fine, anche se a volte ce lo dimentichiamo, andiamo al ristorante per trascorrere una bella serata, e mangiare “semplicemente” bene.

Una visione concorde e complementare è quella dello chef Marco Ambrosino, nonostante sia uno che di cose da dire ne ha parecchie: la multiculturalità del bacino del Mediterraneo, raccontata attraverso il mondo della cucina e del cibo, è il cuore del Manifesto del Collettivo Mediterraneo, affascinante progetto di brand journalism di cui Marco è fondatore. Marco esorta alla sincerità: «Non dobbiamo cercare per forza una storia dietro al piatto, ma dobbiamo saperlo analizzare», quindi bando alle tradizioni inventate e maggiore attenzione a cosa abbiamo nel piatto, anche se non ci ricorda il soffritto della nonna.

Abbiamo tutti, commensali e ristoratori, un gran bisogno di sdrammatizzare, anche con le parole, quel contesto di gioiosa rilassatezza che un ristorante dovrebbe sempre essere: perché talvolta assaggiamo il piatto della vita, che ci fa esplodere le papille gustative, e ha accesso diretto al nostro personale Olimpo dei sapori, altre volte mangiamo “semplicemente” bene, godendoci una bella serata buona in compagnia.

Una serata di cui forse ci dimenticheremo presto, e non c’è niente di male.

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