It’s the economy, tovarich La disfatta in Ucraina e la tragedia economica della Russia

Putin ha sbagliato i suoi calcoli, glieli facciamo noi. Grazie alle sanzioni, alla progressiva indipendenza dal gas e al rafforzamento della Nato, l’Occidente ha già vinto e dell‘impero del Cremlino non resterà che un Paese fantasma

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La guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina non è una rivendicazione storica di territori appartenenti a Mosca o la reazione all’espansione della Nato. È banalmente il folle desiderio di Vladimir Putin e della sua cricca di nazionalisti di stabilire un nuovo ordine mondiale in cui la Russia giochi alla pari con l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare, e non in una condizione di subordinazione determinata dalla enorme distanza di mezzi economici e di prospettive di sviluppo. Come tutte le guerre ha implicazioni economiche di vasto respiro che stiamo probabilmente sottovalutando, anche travolti dalle drammatiche notizie di morti civili e devastazioni che arrivano ogni giorno.

L’economia russa prima della guerra aveva un prodotto interno lordo di circa 1800 miliardi di dollari contro circa 25mila degli Stati Uniti e altrettanti 25mila dell’area europea, quindi il rapporto di forza relativa è di 1 a 30, circa. Non solo, l’economia russa è basata unicamente sull’esportazione di materie prime ed è enormemente arretrata tecnologicamente, con un divario che si andrà allargando in modo fortissimo in conseguenza delle sanzioni.

Se partiamo dal presupposto che la potenza militare non può che essere messa in relazione al Prodotto interno lordo nel medio termine, la spesa del 2 per cento evocata da sempre dagli Stati Uniti e a questo punto sottoscritta da tutto il blocco occidentale, vale circa mille miliardi di dollari l’anno. Saremo in realtà a 1500 miliardi perché gli Stati Uniti spenderanno circa 800 miliardi di dollari (oltre il 3 per cento del loro Pil) e l’Europa in aggregato supererà almeno per qualche anno la soglia del 2 per cento.

La Russia, anche dedicando un folle 10 per cento del Pil alla spesa militare per definizione improduttiva, arriverà con la contrazione dell’economia a circa 150 miliardi di dollari, cioè un decimo della spesa annua del nemico occidentale.

A queste condizioni sarà impossibile per la Russia competere da un punto di vista tecnologico. Abbiamo già visto che gli ucraini resistono all’esercito russo con semplici forniture di materiale per lo più desuete tecnologicamente, infliggendo perdite schiaccianti all’arsenale militare di Mosca. Per il Cremlino sarà anche impossibile competere numericamente. Le perdite di carri armati russi in Ucraina equivalgono almeno a 4/5 anni di produzione e i nuovi carri armati saranno tremendamente inferiori ai moderni armamenti occidentali per effetto dalla scarsità di tecnologia.

L’aviazione russa verrebbe annientata dalla Nato in poche settimane. E a sua volta, la forza di cannoneggiamento russo senza il controllo degli spazi aerei verrebbe polverizzata in pochi giorni, come dimostrato in Iraq, da velivoli americani che possono distruggere centinaia di pezzi di artiglieria senza subire alcuna perdita. Ovviamente laddove abbiano il controllo dello spazio aereo che è la base della dottrina militare americana degli ultimi 50 anni.

Quindi la Russia ha già perso la guerra militare ed economica dopo l’Ucraina in modo definitivo e inappellabile. Ha di fatto risvegliato, allargato (Svezia e Finlandia), e reso più aggressiva e determinata la Nato. Ha creato un acuto senso di pericolo nei paesi baltici e in Polonia. Ha posto le condizioni politiche per un incremento senza precedenti della spesa militare in Occidente. Ha garantito con le sanzioni una crisi economica interna che avrà conseguenze devastanti per almeno dieci anni in Russia. Insomma, una sconfitta di proporzioni epiche per il nazionalismo russo.

La spada di Damocle della potenza nucleare appare poi spuntata perché è abbastanza evidente anche a Putin che avrebbe conseguenze drammatiche e in ogni caso non sembra possibile usarla per scopi offensivi. Nei fatti, dopo le prime settimane, il dibattito in Occidente sulla possibilità che la Russia usi il suo arsenale nucleare si è spento.

Da un punto di vista economico, per Putin la situazione è anche peggiore del descritto disastro militare. L’esplosione dei prezzi di gas e petrolio probabilmente genererà una dolorosissima recessione in Europa e forse negli Stati Uniti, ma è ormai evidente che la politica occidentale a fronte dei massacri di civili, dei crimini di guerra e dell’aggressione russa non toglierà le sanzioni.

A fronte di questo, l’aumento dei prezzi delle materie prime ha scatenato immediatamente alcuni effetti indotti che saranno devastanti per la Russia a medio termine (3-5 anni):

– Gli investimenti di ricerca petrolifera e di gas sono cresciuti per effetto della remunerazione offerta dal prezzo e per la spinta a rendersi autonomi dalla Russia;

– Gli investimenti per la filiera di trasporto del gas (rigassificatori, gasdotti ecc) anche. Va ricordato che il gas è assolutamente sovrabbondante nel pianeta. Le riserve nel Mediterraneo orientale (Cipro, Turchia, Israele, Egitto) sono enormi, il Qatar ha approvato un massiccio investimento di trasporto, avendo risorse enormi di produzione, senza menzionare l’Arabia saudita e i paesi arabi che hanno riserve di gas per 300 anni di consumi globali. Il grosso problema del gas è trasportarlo, ma a questi prezzi gli investimenti sul trasporto saranno fortissimi, immediati e abbastanza rapidi da fare. Certo dovremo spazzare via i no tap nostrani e tutti i nostri no-qualcosa che sono solo quinte colonne russe o alternativamente ignoranti sesquipedali.

– Magicamente, con questi prezzi il nucleare di quarta generazione è stato sdoganato politicamente. Ci vorrà più tempo, ma in 5-10 anni assisteremo a una nuova proliferazioni di centrali nucleari con materia prima (uranio) abbondante e relativamente poco costosa e impatti significativi sul fabbisogno di gas naturale. Dovremmo affrettarci anche noi e la proposta di Carlo Calenda è sensata.

– Tutti i paesi europei stanno incentivando investimenti su fonti energetiche non fossili riducendo anche drasticamente il fabbisogno anno dopo anno.

È facile prevedere che se il 2022 è stato un anno di sofferenza e probabilmente il 2023 sarà un anno di transizione, già dal 2024 saremo in Europa pressoché indipendenti dalla Russia per le fonti energetiche.

A questo punto Putin dovrà vendere al cento per cento il suo output in Cina e in India, dove però mancano gasdotti di portata adeguata e soprattutto il potere negoziale dei cinesi (un solo compratore è sempre una condizione scomoda per il venditore). Questo farà sì che i prezzi riconosciuti ai russi saranno a sconto cospicuo. In America si dice it is the economy, stupid quando alle elezioni i fenomeni di mercato trascendono la volontà politica. Si applica anche a Putin che ha scelto di essere vassallo economico al cento per cento della Cina relegando la Russia a un ruolo del tutto marginale nella geopolitica mondiale.

Entro tre anni l’Europa non comprerà un euro di materie prime fossili dalla Russia (salvo un’improbabile caduta dello zar Putin sostituito da un regime totalmente opposto), e Mosca avrà il dilemma di non potere chiudere i pozzi esistenti pena la perdita definitiva delle risorse, né di potere conservare oltre misura il gas che notoriamente ha enormi limiti di stoccaggio.

A quel punto avendo de facto scatenato una corsa dell’Occidente a creare capacità produttiva eccedente, ci sarà realisticamente un forte surplus di materie prime fossili nel mondo perché ciò che la Cina e l’India compreranno (a sconto) dalla Russia sostituirà attuali acquisti da fornitori medio orientali, e l’annunciato picco di domanda per il petrolio previsto nel 2028-2030 sarà probabilmente incontrato da un picco di offerta e quindi inesorabilmente da prezzi in discesa. Dal 2030 in poi la domanda di fonti fossili decrescerà di suo per effetto delle politiche di riduzione delle emissioni già in essere.

Meno quantità (i pozzi si esauriscono e senza tecnologia occidentale i pozzi in Siberia si deteriorano rapidamente) e prezzi inferiori significa un crollo di entrate per il paese. Senza esportazioni per effetto di sanzioni, rapidamente (2-3 anni) la Russia sprofonderà in una spirale inflazionistica degna di Weimar negli anni ’20 del secolo scorso.

Il regime, se ancora ci sarà, sarà costretto a stampare rubli di carta per compensare una bilancia di pagamenti gravemente deficitaria, nessun investimento diretto dall’estero e rubli svalutati per pagare la spesa militare al dieci per cento del Pil, le pensioni di una popolazione anziana e la spesa pubblica, che resterà l’unico motore dell’economia. Il congelamento delle riserve estere su cui Mario Draghi ha avuto un ruolo centrale ha tolto 300 miliardi di riserve di valuta che anticipano il problema per la governatrice della banca centrale russa Elvira Nabuillina, la quale sembra essere acutamente consapevole del problema tanto da volersene andare al più presto, bloccata da Putin con la forza della persuasione che un dittatore di certo ha su funzionari statali dopo numerosi suicidi inspiegabili negli ultimi 6 mesi.

Un disastro biblico, una povertà da Corea del Nord, una società in cui tutti quelli che potranno scapperanno come già iniziano a fare per sfuggire alla repressione ideologica, alla povertà e all’assoluta mancanza di prospettive di crescita personale.

La Russia già oggi ha la natalità più bassa del mondo. La situazione demografica assumerà contorni mai visti nella storia dell’umanità anche e nonostante l’atroce inumana deportazione dei bambini ucraini.

Il quadro è drammatico ma anche inesorabile nel suo dipanarsi ed è la diretta conseguenza della sconfitta di Putin, prima di tutto sociale. La guerra contro la libertà delle persone e delle idee è già stata persa nel 1989 dall’URSS e riproporla 30 anni dopo appare velleitario e suicida. L’Occidente vive nel secondo semestre del 2022 probabilmente il momento peggiore con inflazione elevatissima, banche centrali restrittive (forse inutilmente ma è così), e realisticamente crescenti tensioni sociali.

Poi il rapporto di forza con la Russia rapidamente volgerà a favore dell’Occidente e anche dell’Ucraina che ha pagato peraltro un tributo di vita, di dolore personale e di devastazione interna senza precedenti in Europa dalla seconda guerra mondiale. Il sacrificio degli ucraini ci consente di guardare avanti con fiducia e di pensare che la nostra cultura, i nostri valori di democrazia e libertà sono stati preservati e semmai rafforzati da questa esperienza. La gratitudine verso il popolo ucraino che con dignità e coraggio ha resistito non andrà mai dimenticata.

Bisogna però resistere ancora dodici, diciotto mesi, mandare armi agli ucraini, aiutarli in ogni modo, ed essere fermi e determinati con le sanzioni. La capacità di reazione delle economie di mercato, la dimensione stessa del rapporto di forza tra Occidente e Russia sono garanzie di successo, purché qualche idiota locale non imponga una narrazione populista di pace (come se la pace dipendesse da qualche velleitaria dichiarazione alla Dibba… che ribrezzo) e indebolisca il fronte interno delle democrazie occidentali. I Cinquestelle e Giuseppe Conte hanno questo ruolo in Italia ma il loro seguito è così basso che spariranno dall’orizzonte con le prossime elezioni e saranno solo un bruttissimo ricordo di una stagione senza senso, utile solo per garantire di non essere mai più ripetuta.

Sarà poi invece fondamentale seguire l’evolversi della geopolitica cinese che a differenza della Russia ha una dimensione economica grande, non è dominata da un’oligarchia ristretta e nazionalista, ma persegue anch’essa un disegno di rafforzamento contro lo strapotere occidentale.

La sensazione è che i cinesi abbiano a cuore il loro benessere economico più del loro nazionalismo e sappiano perfettamente che il loro benessere economico dipende in modo diretto dal commercio con l’Occidente. Cercheranno in tutti i modi di essere tecnologicamente alla pari, è probabile che riducano il gap a oggi esistente, ma non saranno disposti a gettare il paese indietro di dieci anni per occupare Taiwan.

La partita del XXI secolo dipende appunto dalle scelte dei cinesi che, tradizionalmente, vedremo non con atti eclatanti ma con il lento e costante evolversi delle loro azioni sui mercati. Questo sarà il dilemma di base dei prossimi 20-30 anni, non la Russia che è de facto sparita dal radar delle potenze rilevanti nel mondo.

È interessante notare come da un mese circa le materie prime si muovano al ribasso dopo che da metà 2021 sono cominciate a salire tutte in sincrono arrivando al picco di marzo 2022. Già la crescita in sincrono di tutte le materie prime era sospetta (possibile che non ci sia una materia prima in controtendenza?) così come adesso la discesa in sincrono è ancor più sospetta.

Qualcuno sostiene che è la recessione annunciata a deprimere le materie prime, ma poiché tutto il mercato sa che i cinesi sono quasi maniacali nella programmazione degli acquisti di materie prime (ne hanno relativamente poche per i loro consumi e quindi temono di rimanere “strozzati”), esiste anche un’interpretazione meno nobile che guarda a questo fenomeno come un’azione di chi forse conosce che cosa succederà nei prossimi mesi, come lo conosceva a metà dello scorso anno.

Difficile credere che la Russia abbia scatenato l’inferno ucraino senza avere rassicurazione del “benign neglect” cinese. Difficile anche pensare che i cinesi assistano allo sgretolarsi progressivo delle loro prospettive economiche, già provate dalla zero-covid policy, nell’anno del congresso del partito a ottobre 2022, solo perché Putin vuole conquistare il Donbas e anche Severodonetsk, un borgo di 100 mila abitanti in mezzo ai campi di grano, ormai distrutto dai cannoni e completamente spopolato.

Vedremo che cosa faranno i cinesi nei prossimi mesi, di certo senza clamori o senza dichiarazioni pubbliche ma nei fatti. Per ora Joe Biden ha tolto una serie di tariffe che lo scellerato Donald Trump aveva imposto, e sono certo che a Pechino questo non è passato inosservato.

Le guerre sono sempre scatenate con motivazioni ideologiche o religiose o politiche, ma hanno altrettanto da sempre implicazioni economiche e di benessere delle popolazioni che le scatenano ben più importanti di qualsiasi ideologia.

Alla fine, i governanti prosperano solo se i governati vivono meglio. In caso contrario possono durare, ma non all’infinito. È sempre stato così nella storia, e sarà così anche nel caso di Putin, la cui estate da cicala si conclude nel 2022. Adesso arriva il suo inverno russo di durata decennale e dovrebbe sapere che, da Napoleone in poi, gli inverni russi sono devastanti per chi li subisce.

Tocca a lui adesso subire l’inverno russo in una nemesi storica quasi paradossale ma inesorabile.

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