Non riesco a capire come sia nato questo luogo comune del «non si può più dire niente»; quando, se c’è un problema evidente di quest’epoca, è che si può dire veramente tutto. Di tutti i temi in tutti i contesti: ieri Michele Serra scriveva nella sua Amaca che ormai Bolero è indistinguibile da Le Monde, le nozze Turci-Pascale le trovi sul rotocalco come sul quotidiano finanziario. (Anche perché fanno più clic delle notizie drammatiche, e chi fa i giornali deve pure far quadrare i conti, mentre noi gli facciamo la morale dal divano).
Ma anche, e soprattutto, si può dire qualunque enormità, insensatezza, si può spacciare qualunque opinione inattrezzata per analisi del reale, e nessuno mai ti fa una pernacchia, che tu sia intervistato o commentatore o monologhista o celebrità da reality o esponente del paese reale.
L’altro giorno Tommaso Zorzi – un tizio divenuto famoso perché nel corso d’un reality si sarebbe innamorato d’un eterosessuale che gli ha detto «restiamo amici», o qualcosa del genere – ha comunicato con una certa qual enfasi ai suoi quasi due milioni di follower che era successa una cosa gravissima.
Un comico da me mai sentito (ma immagino sia famosissimo: ho perso di vista la comicità di grana grossa ai tempi di Beruschi) nel suo spettacolo dice che il tampone se sei fortunato te lo fanno in una narice, a scendere in quanto a fortuna in due, a scendere ancora in gola, e infine se sei Tommaso Zorzi te lo fanno nel culo.
La battuta è bruttissima; ma non perché, come s’indigna Zorzi, è omofoba: perché è costruita male. Nel crescendo di sfighe e di disagi, come fa un tampone nel culo a essere il culmine se il tizio che hai scelto come esempio l’hai scelto implicando che gli piaccia prenderlo in culo? La logica si sta vestendo a lutto, santo cielo. Beruschi non avrebbe mai fatto un errore simile: non avendolo a portata di mano, farò io da docente gratuita al povero comico. Va fatta così, mi segua, signor comico. Ai più sfigati il tampone lo fanno in gola, a quelli un po’ meno sfigati in due narici, ai quasi fortunati in una, e poi c’è quel gran culo di Zorzi, che indovinate dove glielo fanno. (Poi le mando la fattura, signor comico).
Insomma, Zorzi – che, non ho mai capito perché, è la celebrità gay più detestata dai gay milanesi – si fa prendere dall’invettiva, dice cose a caso, utilizza parole di cui non conosce il significato («dicotomia» intendendo «sillogismo»), e a un certo punto dice che a questo comico chi gliel’ha detto che lui solo perché è gay lo prende in culo? Nessuno schiaccia la facile alzata, nessuno vuole sentirsi dare dell’omofobo.
Tuttavia, questa precisazione gli attira ulteriori antipatie: dicono quelli del suo settore di preferenze sessuali che non se ne può più dei gay che si vantano di essere attivi pensando così di sembrare un po’ meno gay. Per la precisione dicono: nel culo lo pigliamo tutti, è ora di finirla di negare. Mi torna in mente un vecchio amico che, quando le app da rimorchio le avevano solo i gay (sempre un passo avanti), mi spiegò che se uno nel profilo si scriveva «versatile» tu dovevi leggere «passivo».
Ma non è questo l’importante, né è importante che Zorzi frigni nontidevipermettereeee invece di esigere battute più feroci e più divertenti, o che non gioisca comunque essendo evidentemente entelechia dell’omosessualità per il pubblico dei comici di grana grossa (io, per dire, sono rimasta al “Vizietto”, come riferimento in una costruzione comica del genere: se mi fanno una battuta su Zorzi non mi arriva subito, ci metto un po’ a ricordarmi chi sia).
Il dettaglio significativo arriva sabato, quando Repubblica dedica l’apertura degli spettacoli a questa avvincente questione (che lavoro usurante dev’essere riempire pagine degli spettacoli in un Paese da decenni privo d’uno star system). Intervistato (mai fare i giornali con delle idee, mi raccomando: sempre far parlare gente che non ha niente da dire, così si possono mettere i neretti e gli a capo e i lettori non si spaventano pensando gli tocchi leggere), Zorzi dice che lui è fortunato perché rispetto a una battuta del genere può sfogarsi con famiglia e amici, «se sei solo la mortificazione ti resta appiccicata addosso e fa male».
Di recente è riemerso un video degli anni Novanta in cui Victoria Beckham, ospite della versione inglese di “Non dimenticate lo spazzolino da denti”, viene invitata dal conduttore a salire su una bilancia per verificare quanti chili abbia perso dopo il parto. Lei ha commentato il tutto dicendo «V’immaginate farlo oggi?», e la sua incredulità è fondata: non è vero che non si può più dire niente, ma è vero che non si può più pesare nessuno.
Ma, ancora una volta, il dettaglio significativo è un altro: se si va a guardare il video su YouTube, i commenti degli indignati – indignati per il gesto del conduttore – sono del tenore «non posso credere che l’abbia umiliata così».
C’è qualcosa che non capisco. Perché, se un comico fa una brutta battuta di cui sei oggetto, è mortificante per te e non per lui, che di mestiere dovrebbe fare battute riuscite? Perché, se un conduttore ti chiede di salire su una bilancia, è umiliante per te e non per l’esibita scarsità di idee degli autori del programma? C’è una dignità misurabile in chili e la sua cifra non è quella dell’ago della bilancia inquadrato in quella trasmissione?
Si può dire qualunque cosa, e nessuno mai risponde «ma questa cosa che stai dicendo non ha senso». Che tra l’altro è un’obiezione preziosa. Io, per dire, stavo per scrivere che Paola Turci e Francesca Pascale avevano pubblicato una sola foto delle loro nozze, come Carolyn Bessette e John John Kennedy, e un prezioso obiettore mi ha fatto notare che nel frattempo ne avevano pubblicate molte altre. Uff. Mi sembrava una scelta così chic.
Si può dire qualunque cosa; ai tempi miei no, e quindi venni severamente redarguita quando, in terza liceo, alla lettura di «Amor ch’a nullo amato amar perdona», esclamai: ma è Venditti. Oggi, un liceale che correggesse il professore dicendo che Paolo e Francesca è un refuso, ha visto le spose al tg, sono Paola e Francesca, quel liceale lì prenderebbe senz’altro un buon voto per l’attenzione all’attualità e ai temi sensibili.
Si può dire qualunque cosa, e quindi vorrei approfittarne per dire che la più bella canzone di Paola Turci parla d’un amore mitomane al quale l’io narrante della Turci dice «Nonostante parli spesso ad alta voce e nessuno crede a ciò che dici e a quel che immagini», e insomma se non è il ritratto di Silvio Berlusconi questo.