Apartheid elettoraleL’ostruzionismo amministrativo che impedisce di candidarsi a chi non è già in Parlamento

Come denuncia l’Associazione Coscioni, il Rosatellum impone solo alle nuove forze di raccogliere in un mese le sottoscrizioni da autenticare in via cartacea e senza firma digitale. E, in più, impedisce di fatto “agli intrusi” di entrare in una coalizione

Blocks Fletcher, Unsplash

La cosiddetta galassia radicale, cioè l’insieme di sigle e associazioni di cui si componeva l’universo pannelliano e che la morte di Pannella ha privato del suo centro di unità e gravità politica, a queste elezioni marcerà come non mai in ordine sparso.

La componente radicale di +Europa sarà nel raggruppamento di Calenda. Il partito di Radicali Italiani, che è distinto da +Europa, sta studiando una propria collocazione nella compagine progressista. Il gruppo dirigente del Partito Radicale e della Lista Pannella potrebbe invece continuare a coltivare in senso elettorale il rapporto avviato con la Lega di Matteo Salvini sui referendum sulla giustizia.

Di tutte le componenti della galassia radicale, quella ad avere compiuto la scelta più radicale, in senso proprio e figurato, è però l’Associazione Luca Coscioni, che ha promosso la presentazione di una lista “Democrazia e Referendum” con l’obiettivo di sollevare lo scandalo sul carattere deliberatamente discriminatorio della legge elettorale in ordine all’accesso agli istituti di partecipazione politica e alle elezioni.

In un Paese abituato a urlare a sproposito all’allarme democratico, quella che pone l’associazione di Marco Cappato e Filomena Gallo è davvero la questione democratica per eccellenza, visto che l’attuale legge elettorale distingue figli e figliastri e istituisce un regime di sostanziale apartheid elettorale per le forze politiche non presenti nel Parlamento uscente.

In sintesi il problema è questo: sulla base della regola generale prevista dal Rosatellum e di una deroga particolare (in ogni legislatura si allarga in articulo mortis la platea dei beneficiati) una decina di soggetti politici godono dall’esonero dalla raccolta firme. Sono – regola generale – i partiti che si siano costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le camere dall’inizio della legislatura – Pd, M5s, Lega, FI e FdI – come prevede l’articolo 18-bis, comma 2, del dpR 361/57 (Testo unico per la elezione della Camera dei deputati), nonché – regola particolare, introdotta meno di un mese fa: art. 6-bis del decreto legge 41/2022 – i partiti costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021, nonché quelli che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale, o che abbiano concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale di coalizione avendo conseguito, sul piano nazionale, un numero di voti validi superiore all’1 per cento del totale.

Come è evidente dalla lettura, anche disattenta, delle cronache politiche, di queste norme non esiste neppure una interpretazione ufficiale e consolidata – il numero delle liste esonerate sembra crescere di giorno in giorno – e c’è da immaginare che in sede di attuazione si proverà a riconoscere molto estensivamente questo beneficio: gli esoneri per partenogenesi. Ma solo per chi, in un modo o nell’altro, è dentro il Parlamento uscente.

Fuori dal recinto del privilegio, c’è una normalità di fatto impossibile. Le forze politiche non titolari dell’esonero devono infatti raccogliere 36.750 firme per i 49 collegi plurinominali della Camera e 19.500 firme per i 26 collegi plurinominali del Senato (cioè almeno 750 a collegio). Questo numero abnorme di firme è già dimezzato rispetto a quello previsto a regime, perché la legislatura si è sciolta anticipatamente. Ciascuna di queste firme va apposta alla presenza di un autenticatore (tipicamente un notaio, un cancelliere o un consigliere comunale, provinciale e regionale) e va certificata richiedendo al comune di residenza del firmatario il suo documento di iscrizione nelle liste elettorali. I punti di raccolta devono essere ovviamente disseminati nei diversi collegi plurinominali. Non è ammessa la firma digitale.

Quale è la ragione di questo sistema complicatissimo, che non prevede modalità diversa da carta penna e calamaio, prescrive la presenza di un autenticatore o disinteressato (i cancellieri, che dovrebbero farlo gratuitamente) o esoso (i notai, che possono essere pagati ma a tariffa notarile) ovvero ostile a qualunque partito non sia il proprio (gli eletti negli enti locali) e obbliga i promotori a richiedere a una pubblica amministrazione un foglio di carta (il certificato elettorale del firmatario) da consegnare a un’altra pubblica amministrazione?

La ragione è proprio la discriminazione elettorale degli “intrusi”, cioè di quelli che, non stando in Parlamento, non ci devono entrare. Gli handicap che la legge elettorale infligge loro non sono la conseguenza di requisiti di rappresentatività particolarmente esigenti, ma l’obiettivo di meccanismi deliberatamente ostruzionistici, che rendono difficilissimo, in condizioni ordinarie, o impossibile, in condizioni straordinarie presentare al voto una nuova forza politica.

Di fatto i partiti già rappresentati nelle istituzioni sono i soli che non devono raccogliere le firme, ma sono anche gli unici a poterlo fare, avendo a disposizione una rete diffusa di consiglieri comunali e provinciali, cioè di autenticatori di partito.

Alle scorse elezioni, nel 2018, riuscirono a presentarsi solo tre forze non presenti in Parlamento, avendo potuto organizzare la presentazione con mesi di anticipo (Potere al popolo, CasaPound e Popolo della famiglia): e le firme richieste erano circa la metà di quelle chieste oggi. Nel 2013 il M5S, per cui di lì a qualche settimana avrebbe votato un italiano su quattro, fece una notevole fatica a raccogliere le firme, tra vibranti polemiche, malgrado vi si fosse preparato con largo anticipo e le firme da raccogliere fossero state ridotte in extremis a circa 30.000.

Oggi ci troviamo in uno scenario decisamente peggiore. Lo scioglimento delle camere è maturato nel giro di una settimana ed è stato decretato un mese prima della data in cui dovrebbero essere consegnate le firme, per raccogliere le quali teoricamente la legge dà ai partiti fino a sei mesi di tempo.

L’anomalia italiana emerge anche nel confronto con altri Paesi europei. In Francia non sono richieste firme, nel Regno Unito ne bastano 6000, in Germania ne servono un numero analogo a quello richiesto in Italia, ma le firme non vanno autenticate e questo cambia tutto.

Di fronte a questo scenario, l’Associazione Coscioni ha chiesto al Governo un provvedimento urgente per autorizzare l’utilizzo della firma digitale nel procedimento pre-elettorale. La stessa firma “non cartacea” che consente al cittadino di perfezionare ogni sorta di atto con la pubblica amministrazione, tranne, non casualmente, la dichiarazione di presentazione delle liste elettorali. Per dare concretezza a questa richiesta, l’Associazione Luca Coscioni ha annunciato la presentazione di una lista elettorale denominata “Democrazia e Referendum”, insieme alla Associazione Eumans, la cui presidente Virginia Fiume è in sciopero della fame da mercoledì scorso “per sostenere la richiesta al Presidente del Consiglio di autorizzare la sottoscrizione telematica delle liste per le elezioni”.

I promotori dell’iniziativa hanno sottolineato anche un altro paradosso della legge elettorale, che oltre a rendere molto difficile la presentazione delle liste che devono raccogliere le firme, rende per loro impossibile allearsi con partiti che godono dell’esonero dalla raccolta firme, perché – come dice Cappato – «le firme andrebbero raccolte non solo sulle liste di candidati al proporzionale, ma anche sui candidati maggioritari di una eventuale coalizione”, che le liste esonerate decidono solo nell’imminenza della presentazione delle candidature».

Il destino di questa iniziativa dell’Associazione Coscioni nell’immediato pare purtroppo segnato. Potrebbe avere un seguito giudiziario e giungere in via incidentale al giudizio della Corte Costituzionale, che su casi analoghi in passato non ha dimostrato una particolare sensibilità. In ogni caso, che l’accesso al diritto di elettorato passivo sia deliberatamente pregiudicato dalla legge elettorale, per la rendita che essa riconosce agli uscenti e gli ostacoli che frappone ai potenziali entranti, manifesta in modo eloquente il degrado della cultura democratica del nostro sistema politico e istituzionale.

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