Non è solo una questione di “moda”: se il fascino dell’Oriente è sempre più protagonista della scena culinaria Europea, il merito è del senso di equilibrio e rigore ravvisabile in tutti gli aspetti della ristorazione nipponica, della cura dei dettagli che emerge nonostante il minimalismo zen dei piatti e della complessità delle preparazioni utilizzate per far emergere l’essenziale di gusti, colori e forme.
All’apparenza niente di più distante dall’abbondanza impulsiva e “sentimentale” della cucina mediterranea, che tuttavia ne rimasta conquistata… Scopriamo perché.
Un po’ di storia
La cucina giapponese (washoku) è una tra le più variegate e ricche al mondo, tanto da aver ottenuto dall’Unesco il riconoscimento di patrimonio dell’Umanità nel 2013. Il suo primo incontro con il mondo occidentale risale al 1500, quando una delegazione di feudatari giapponesi convertiti dai Gesuiti fece visita a Papa Gregorio XIII.
Da allora, perché il sushi conquistasse l’Ovest si dovettero aspettare quasi altri 500 anni, secondo gli storici almeno fino a quando il principe Akihito offrì questo tipo di preparazione ad alcuni ufficiali americani durante un ricevimento all’ambasciata giapponese a Washington nel 1953.
In Italia il pioniere del sushi è stato Minoru Hirazawa (detto Shiro), che nel 1972 ha aperto il ristorante Poporoya a Roma (bissando l’esperienza a Milano nel 1977) e che, per avere a portata di mano la migliore materia prima, ha selezionato una coltura di riso nipponico adatta alle risaie di Vercelli, avviandone una coltivazione italiana, insieme a quella di tofu e miso.
Dagli anni Ottanta, infine, c’è stato il vero e proprio boom della cucina nipponica in Europa e negli Stati Uniti, aree geografiche che, per ragioni diverse, hanno una cultura gastronomica apparentemente agli antipodi rispetto a quella del Sol Levante. Eppure la convivenza funziona…
Rituali Zen in cucina, tra gusto e spiritualità
Nelle sue diverse tipologie (che non contemplano solo il sushi), la cucina giapponese è profondamente diversa da quella occidentale (fine dining a parte), non solo per la particolarità di alcuni sapori, ma soprattutto per la concezione stessa del cibo e della sua preparazione.
Se per gli occidentali la cucina è, prima di tutto, piacere sensoriale e, in particolare, appagamento del gusto; per i giapponesi invece ogni gesto, lento e accurato, si trasforma in un rituale che rimanda all’orizzonte spirituale Zen e alla filosofia buddhista shojin ryori, secondo la quale il cibo deve essere un mezzo di crescita, illuminazione interiore e armonizzazione con la natura.
Per questo nulla va sprecato e tutto deve essere in equilibrio, in giusta misura, esaltato nella sua nettezza di sapori, colori e forme, complementari e bilanciati all’interno di ogni piatto.
Che sapore ha la bellezza?
Il valore della perfezione estetica e del rigore formale che permea la cultura nipponica (dalla calligrafia al modo di impacchettare i doni o tsutsumi), è fondamentale anche nella cucina e nello svolgersi del pasto tradizionale (kaiseki): un’esperienza multisensoriale che coinvolge innanzitutto la vista.
La bellezza del piatto è una componente della sua bontà e va costruita attraverso la cura della presentazione e l’osservanza di una sobrietà in cui tutto, persino la distribuzione fra pieni e vuoti, deve essere in perfetta armonia (wa), senza decorazioni bizzarre o accostamenti stravaganti che corrompono la naturalità degli ingredienti e confondono il palato.
Questa ricerca estetica non si limita alle singole portate, ma si compone come un mosaico nel corso del pasto, con il cibo servito in piccole porzioni, all’interno di ciotoline colorate, piccoli piatti di forme diverse e contenitori particolari che, nel loro susseguirsi o accostarsi gli uni agli altri sulla tavola creano un senso di ritmo, movimento e stimolazione sensoriale continua.
La complessità dell’essenziale
Pochi ingredienti, quasi totalmente in purezza, cotture minime o del tutto assenti, impiattamento pulito ed essenziale. Facile no? E invece non c’è nulla di più laborioso. Tutto in una cucina giapponese è preparato meticolosamente e assemblato con una precisione estrema che richiede un’incredibile abilità manuale e un addestramento rigoroso.
Anche dietro al piatto di sushi apparentemente più semplice c’è la storia dell’itamae (“il signore davanti al tagliere”), che prima di diventare “artigiano del sushi” deve seguire un percorso di studi e pratica di minimo due anni, per imparare a tagliare il pesce in maniera chirurgica e apprendere i trucchi del mestiere (come quello di “massaggiare” il polpo prima di servirlo).
Se poi vuole maneggiare il velenosissimo fugu (il pesce palla con cui si prepara un prelibato sashimi, ma è vietato quasi ovunque in Europa) serve anche una speciale licenza.
Con il tempo ogni itamae sviluppa una gestualità specifica e un proprio stile personale, tanto che nei ristoranti del Giappone i veri intenditori di sushi scelgono non solo le portate dal menù, ma anche l’itamae a cui affidarne la preparazione.
Il fascino di mangiare in un’oasi (dentro e fuori dalla città)
Se non ci si accontenta del take away si può godere dell’atmosfera suggestiva che rende davvero unica l’esperienza di un pasto nipponico e consente di immergersi in un angolo di Oriente senza cambiare fuso orario.
Entrare in un ristorante giapponese (indipendentemente dal fatto che la cucina sia più o meno contaminata nelle tecniche e negli ingredienti, e talvolta rivisitata in modo creativo) significa lasciarsi catturare dal fascino di una dimensione fluttuante al di sopra della frenesia cittadina, in cui lo stile moderno e minimalista dell’arredamento si combina con la presenza di elementi che evocano il contatto la natura (pietra, legno, bambù, resine, cristalli, acqua e piante).
Il piacere visivo diventa anche tattile grazie alla possibilità di maneggiare ciotole, bacchette e stoviglie particolari e, talvolta, di sedere sui tradizionali tatami. Talvolta capita persino di ritrovarsi in un giardino zen con ciottoli, piante, stagni e fontane, all’interno di oasi d’Oriente che possono trovarsi ovunque, anche nel cuore di grandi metropoli come la capitale italiana del sushi: Milano.
Qui tra le mete più rinomate tra i “sushi addicted” in cerca di un ambiente affascinante ci sono Aalto, Iyo, Osaka, Ronin, Nishiki, Zen Sushi, Sakura, Wicky’s Innovative Japanese Cuisine. Ma non sono da sottovalutare neppure le location più defilate dell’hinterland, avvantaggiate da spazi più ampi, luminosi e tranquilli, valorizzati da grandi vetrate e affacci sull’esterno.
Per citarne alcune: Kenzu Sushi a Monza, Niwa a Cologno Monzese, Kyubi (a Brugherio), Umami Taste Experience (a Seregno) e Mu Fish (a Nova Milanese), che nel 2018 è stato inserito nel Gatti-Massobrio nella categoria “cucina radiosa” e nel 2019 ha ricevuto per la seconda volta il riconoscimento da Gambero Rosso come uno dei ristoranti fuori Milano con il miglior rapporto qualità-prezzo.
L’Oriente nel bicchiere. Dai fermentati ai distillati
Se da almeno 2000 anni il sake ottenuto dalla fermentazione del riso è la bevanda alcolica più nota del Giappone, negli ultimi 20 anni non è più stata l’unica ad affascinare l’Occidente. Oltre alla produzione di whisky, avviata alla fine dell’Ottocento dalla distilleria Suntory secondo il disciplinare scozzese, oggi il Sol Levante deve la sua affermazione nel mondo degli Spirits soprattutto alla particolarità dei suoi gin.
L’esportazione verso l’Europa è iniziata solo nel 2017, ma da allora il successo è stato inarrestabile grazie alla capacità di questi distillati di raccontare il territorio e rispecchiare la connessione con la natura e il rispetto per la stagionalità degli ingredienti (o meglio, in questo caso, delle botanicals) che sono alla base anche della cucina e di tutti gli aspetti della quotidianità nipponica.
Oltre agli aromi classici del gin come ginepro, mela, cannella, scorze di limone e arancia, zenzero, le distillerie giapponesi utilizzano erbe, frutti, tè, fiori e spezie locali, distillati separatamente e solo in seguito miscelati insieme, in modo da tenere sotto controllo l’equilibrio dei sapori.
Tra gli esempi più interessanti ci sono Ki No Bi, prodotto da The Kyoto Distillery con yuzu, hinoki (cipresso giapponese), bambù, tè verde gyokuro e grani di pepe sansho; il Nikka Coffey Gin di Asahi Breweries, con agrumi autoctoni (yuzu, shikuwasa, kabosu e amanatsu) mela e pepe sansho, su una base di orzo e mais; il Kozue di Nakano BC che usa dei pinoli giapponesi, il Masahiro Okinawa Gin che utilizza il goya, il melone amaro tipico dell’isola di Okinawa e i particolarissimi Sakurao Gin, tra i cui ingredienti spiccano il wasabi e i gusci d’ostrica di Hiroshima.
Talvolta, invece, la particolarità sta tutta nella base, come nel caso di Wa Gin della Mars Shinshu Distillery, prodotto dal sakè di Meiri Shurui, fatto riposare per 10 anni prima di essere imbottigliato, e di Yuzu Gin, prodotto dalla distilleria Kyoya a partire dallo shochu, un liquore di patate.
Infine Roku Gin, nato nel 2017, racchiude l’anima del primo gin giapponese presentato sul mercato (il gin Hermes prodotto da Suntory dal 1936) e riassume nelle sue note ricche ma delicate tutta la disciplina, la pazienza e la ricerca di armonia che stanno alla base della cultura nipponica: “sei” (roku in giapponese) non è solo il nome del prodotto (ripreso dall’ideogramma in etichetta e dalla forma esagonale della bottiglia) ma anche il numero dei botanicals principali utilizzati.
Ognuno di essi, raccolto durante lo shun (il breve momento dell’anno in cui un elemento della natura esprime le sue massime caratteristiche), rappresenta una stagione e, tutti insieme, simboleggiano il legame indissolubile con la natura: i fiori e le foglie del sakura (ciliegio giapponese), raccolte in sole due settimane l’anno, rimandano alla primavera; il tè verde nelle due varietà sencha e gyokuro, che durante la bella stagione regalano il loro miglior raccolto (Summer Flush), evocano l’estate; il pepe sansho rappresenta l’autunno; infine lo yuzu, rimanda alla stagione degli agrumi, cioè l’inverno.
Insomma, i gin giapponesi racchiudono l’aroma delle proprie isole e ne raccontano la cultura: per apprezzarli al meglio non serve esagerare con le miscelazioni, ma basta limitarsi a uno spruzzo di acqua tonica o gustarli in purezza giocando sulla temperatura di servizio.
Molti sushi lovers non sanno che…
1. Il sushi non è giapponese e non è nemmeno un vero piatto
In origine il sushi era un metodo di conservazione (detto narezushi), importato attorno al IV secolo d. C. dalla Cina (o dalla Corea) e basato sulla fermentazione del pesce (crudo e salato) tra strati di riso (cotto e acidulato in aceto di riso) che poi veniva scartato. Nel periodo Muromachi (1336-1573) nasce il namanare, ovvero un piatto in cui il riso inizia a essere consumato insieme al pesce.
Ma solo a partire dall’epoca Edo (1603-1867), inizia a diffondersi il “sushi veloce” (haya-zushi), in cui non si aspetta più l’inacidimento del riso, ma lo si mescola con l’aceto e lo si serve insieme a pesce, verdure e uova. La svolta finale si ha nel dopoguerra, quando per ragioni igieniche il sushi smette di essere venduto per strada e diventa una prelibatezza di lusso servita nei ristoranti, trasformandosi nel kaiten-zushi (“sushi girevole”) che ha conquistato l’Occidente.
2. Salmone e wasabi sono dei “falsi”
Per quanto sia molto amato in Occidente, il sushi con il salmone non si trova negli autentici ristoranti di Tokyo, che preferiscono servire pesce fresco autoctono anziché specie d’importazione dalla Norvegia.
Invece per quanto riguarda la pasta piccante di colore verde servita assieme al sushi, bisogna sapere che spesso si tratta di semplice rafano misto a senape e colorato di verde, non di vero wasabi ( chiamato hon-wasabi) ottenuto dalla rara e costosa radice della Wasabia japonica (ravanello giapponese).
3. Esiste un galateo del sushi
Come ogni cucina che si rispetti, anche quella giapponese prevede delle “regole di buon comportamento” (o “comandamenti” secondo lo chef Susumu Yajima) da rispettare.
Innanzitutto, il sushi andrebbe mangiato a pranzo (e non a cena) e gustato subito dopo la preparazione, quando il riso è ancora caldo.
In secondo luogo non bisogna trascurare di lavarsi le mani prima di ordinare (anche utilizzando gli asciugamani caldi offerti dal cameriere) e di pronunciare la tradizionale formula di ringraziamento (itadakimasu) prima di iniziare a mangiare.
È consentito sorbire zuppe e ramen accostando la ciotola alla bocca, emettere “rumori di risucchio” (in Giappone interpretati come segno di apprezzamento) e persino mangiare il sushi (non il sashimi) con le mani; vietato invece spezzare i singoli bocconi (mai chiedere un coltello per mangiare il sushi!), infilzarli con le bacchette o portarli al di sopra dell’altezza della bocca.
Le bacchette non vanno impugnate bensì tenute con le estremità delle dita, non devono essere usate per indicare né lasciate sul piatto tra un boccone e l’altro (meglio riporle una accanto all’altra sul tavolo o sul porta-bacchette). Inoltre, per attingere da un piatto comune, è opportuno girarle, per utilizzare il lato opposto rispetto a quello con il quale il boccone verrà portato alla bocca.
La salsa di soia non va sprecata né mixata con il wasabi (vero o falso che sia) ma versata poco alla volta in modo da intingere il sushi dalla parte del pesce, senza bagnare il riso.
Le fettine di zenzero (gari) servono per pulire il palato tra un piatto e l’altro, quindi vanno assaggiate con parsimonia, non mangiate come fossero un’insalata né usate per condire il sushi.
Infine considerare che non lasciare nemmeno un chicco di riso nel proprio piatto è segno di grande rispetto per l’ospite e per lo chef, così come concludere il pasto ringraziando con la frase “gochisousama deshita”.
4. Non tutti i sushi-restaurant sono autentici
Tra “made in Japan” e “similgiappo”, nel mondo ci sono ormai centinaia di migliaia di ristoranti con insegna giapponese. In Italia, nel 2018 se ne contavano più di 3mila, di cui almeno 700 solo a Milano.
Per distinguere quelli gli originali dalle contraffazioni, da alcuni anni il Ministero dell’Agricoltura nipponico ha formulato un apposito disciplinare, che riguarda la qualità e la preparazione dei piatti, le modalità di accoglienza dei clienti e di presentazione dei piatti, ma soprattutto certifica con il marchio Japanese Food Supporter il livello di formazione degli chef (distinguendoli in “gold”, “silver” e “bronze”) e la loro adesione all’autentica cucina washoku, assegnando ai ristoranti che lo meritano l’ambito “bollino blu”, rilasciato dalla Japanese External Trade Organization.
5. La cucina giapponese non è solo sushi e sashimi
Oltre al pesce crudo, con o senza riso, nella cucina tipica giapponese ci sono anche molti altri ingredienti e tecniche di preparazione.
Sul menù si possono trovare carne (come il manzo kobe o wagyu), verdure (melanzane tonde kamonasu, funghi matsutake, carote, porri, daikon, germogli di bambù, gobo, aglio nero della regione di Aomori) e alghe (soprattutto nori e wakame), serviti in tempura, sottoforma di zuppa, oppure marinati (con soia e mirin) e cotti alla brace (nell’hibachi, letteralmente “ciotola del fuoco”, è un contenitore rotondo che, grazie alle piccole dimensioni, può essere portato anche al centro della tavola) o alla griglia (con la tecnica del robatayaki, che rappresenta anche una forma di spettacolo tra i fornelli, con movimenti acrobatici e fumate dai profumi invitanti).
6. Il 18 giugno è l’International Sushi Day
Celebrata per la prima volta nel 2009, la Giornata internazionale del sushi testimonia l’ampia diffusione dell’amore per la cucina giapponese, a livello globale, e rappresenta un’occasione in più per approfondirne la conoscenza, magari provando qualche ricetta nuova… al ristorante o anche a casa!