Se è vero che alle prossime elezioni il Partito democratico chiederà ai propri elettori di votare per Luigi Di Maio in un collegio uninominale, tutto si potrà dire del Pd, e anche dei suoi militanti, ma non che siano permalosi.
Se sono capaci di perdonare perfino chi ha passato anni a definirli pubblicamente ladri, corrotti e mafiosi, arrivando a sostenere che facessero l’elettroshock ai bambini per toglierli alle famiglie, non c’è sopruso cui la loro sconfinata misericordia, evidentemente, non possa rispondere con la grazia della riconciliazione.
Se però la riconciliazione è un bellissimo e nobilissimo gesto, la rielezione appare una risposta perfino eccessiva. Tanto più dal momento in cui tanta misericordia si applica in verità in modo estremamente selettivo, e secondo criteri assai curiosi.
È noto ad esempio come nei confronti di Matteo Renzi, da parte del Pd, e non solo dei suoi dirigenti, vi sia ancora un risentimento fortissimo, viscerale, incoercibile.
Eppure Renzi, almeno fino a oggi, non è mai stato un avversario, anche dopo la scissione ha fatto parte delle stesse maggioranze di cui ha fatto parte il Pd – partito di cui è stato segretario, a suo tempo, pure troppo adorato, oltre che presidente del Consiglio – e mai si è sognato di dire dei democratici qualcosa di paragonabile a quel che ne ha detto Di Maio ai tempi del caso Bibbiano.
In questa tolleranza selettiva sembra di cogliere un antico riflesso, quello per cui il Pci e le sue successive filiazioni potevano avere, alla loro sinistra, solo «compagni che sbagliano», mentre chi stava alla loro destra era subito bollato come ignobile «traditore».
Mi rendo conto che definire Di Maio «compagno», o anche semplicemente «di sinistra», sarebbe ridicolo, e tuttavia è come se anche lui avesse beneficiato di una sorta di salvacondotto che la buona coscienza progressista (post comunista) accorda a qualunque contestatore abbia assunto, a qualunque titolo, pose da rivoluzionario (o semplicemente populista), con la stessa facilità con cui affibbia lo stigma del traditore, o peggio, a chiunque si permetta di criticare o dissentire da posizioni riformiste.
È una storia antichissima, che ha forse anche qualcosa a che fare con una sorta di complesso di colpa, con il segreto rimorso di avere tradito «gli ideali della propria giovinezza», con l’incapacità di fare davvero i conti con il mito della rivoluzione (qualunque cosa si intenda con quella parola, e a maggior ragione se i suoi contorni sono ormai sfumati fino al punto da renderla del tutto indistinguibile da un qualunque sinonimo di giovanile e spensierato idealismo).
Così si spiega anche la radicale diversità dei toni usati da un lato con Giuseppe Conte, dall’altro con Carlo Calenda, che ieri il verde Angelo Bonelli ha definito addirittura «fascista», sia pure con una circonlocuzione («Dice Calenda che usare l’esercito non è di destra né di sinistra? È vero, perché è drammaticamente fascista»), cosa che fino a ventiquattro ore prima, comunque, non gli aveva impedito di sottoscrivere un’alleanza elettorale con lui.
Nel caso di Di Maio siamo però ben oltre l’indulgenza. Dal punto di vista del Pd non c’è infatti una sola ragione politica, né ideale né di convenienza, per togliersi quattro seggi (o quanti saranno) e regalarli al ministro degli Esteri e ad altri illustri esponenti del suo movimento come Laura Castelli o Manlio Di Stefano. Anzi, c’è da scommettere che una simile scelta, se sarà confermata, al Pd e alla sua coalizione non solo non farà guadagnare alcun voto, ma ne farà perdere diversi.
Almeno uno, di sicuro.