C’è una clamorosa assenza nell’infuocato dibattito elettorale: la giustizia.
Non è un gran novità, è una materia che solitamente sale alla ribalta solo in funzione strumentale, di polemica politica, e mai di un serio progetto di riforma. Fino ad oggi, almeno, giacché il Pnrr allestito dal governo Draghi ha reso necessario per usufruire dei fondi europei un profondo cambiamento sia dei codici penale e civile che delle stesse strutture giudiziarie.
Dopo la riforma nel settore civile il Cdm ha approvato ieri (all’unanimità), oltre al Decreto Aiuti, gli schemi dei decreti legislativi attuativi della legge delega della riforma Cartabia relativi alla informatizzazione del procedimento penale, alla modifica della parte del codice di procedura regolante la fase delle indagini, al regime sanzionatorio e alla introduzione della mediazione sotto forma di “giustizia riparativa” (il confronto tra vittime e responsabili dei reati) che costituisce la novità principale.
È questa l’ultima parte del piano Cartabia già approvato in alcune parti, come la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm.
Per l’effettivo varo dei decreti attuativi ci sono da percorrere ulteriori passaggi, come l’approvazione delle commissioni giustizia di Camera e Senato che hanno tempo due mesi, e dunque è possibile che si slitti alla nuova legislatura con le incognite del caso.
È forte infatti il timore di un ostruzionismo strisciante di Lega, FDI e Cinquestelle sulle parti della riforma che attengono alla modifica delle sanzioni e dell’esecuzione della pena.
Si tratta di un’insieme di misure per ampliare l’area di applicazione delle cosiddette “misure alternative” al carcere (lavori sociali, detenzione domiciliare e così via) con lo scopo di deflazionare l’affollamento delle carceri, alcune delle quali in condizioni disumane.
La mancata approvazione della riforma giudiziaria, che come ogni riforma italiana incontra di suo la preconcetta ostilità delle corporazioni colpite (avvocati, funzionari amministrativi e magistrati), comporterebbe la perdita dei finanziamenti concordati con la commissione europea. Stupisce dunque che l’argomento non sia all’ordine del giorno, ma in particolare che nel patto di alleanza elettorale riformista stipulato da Calenda e Letta non se ne faccia la minima menzione.
Un silenzio che ha suscitato le forti perplessità di Enrico Costa di Azione, che ha espresso il timore che questi temi vengano sacrificati alle ragioni dell’alleanza anti-destra. Stupisce non tanto l’insensibilità della sinistra (ormai conclamata) verso il diritto e le carenze giudiziarie, ma soprattutto l’incapacità di comprendere la necessità di incalzare la destra proprio su questi temi.
Perché oltre al tema della riforma Cartabia vi è un altro punto, segnalato qui da Amedeo La Mattina, che dovrebbe suscitare allarme e spirito polemico a sinistra: il disegno di riforma costituzionale dell’art.117 della Costituzione, con prima firmataria Giorgia Meloni. Per capirsi: è una proposta di due articoli con i quali si sottrae l’Italia all’obbligo di uniformarsi ai trattati ed alle convenzioni europee nonché a quello di dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Corte di Giustizia. Per averci provato sono finiti sotto procedura di infrazione, in tempi diversi, Polonia e Germania, a sottolineare che la questione non può essere sottovalutata. Sono in ballo diritti e garanzie, l’autonomia della magistratura, temi che non dovrebbero essere estranei alla cultura di sinistra ma che per qualche oscuro motivo sembrano messi nel dimenticatoio. Come scrive oggi di nuovo La Mattina, la buona notizia è che la proposta di legge Meloni non è stata inserita nella bozza di programma di governo del centrodestra.
Eppure la riforma del codice di procedura penale contiene due punti a stretto indirizzo riformista: l’accelerazione verso l’informatizzazione totale del processo, una visione nuova della funzione della pena più incentrata sulla deflazione del carcere e il recupero dei soggetti più svantaggiati (tali sono nella maggior parte i detenuti nelle nostre carceri, poveri e immigrati).
Si tratta non solo di un disegno coerente e con una idea organica dei cambiamenti da apportare ma anche di una inversione di marcia rispetto al giustizialismo dilagante degli ultimi tempi. La novità va ricercata nell’idea di incentivare definizioni anticipate e concordate dei procedimenti penali consentendo in via generale che le pene inferiori ai quattro anni siano scontate con misure alternative al carcere come detenzione domiciliare e destinazione a lavori socialmente utili.
Per favorire questo obiettivo si anticipa la decisione sul punto al momento della sentenza di primo grado e non a quello della sua esecutività dopo appello e cassazione.
Per contemperare e rispettare i diritti delle vittime viene introdotta una dirompente novità, come l’istituto della giustizia riparativa basato sul tentativo di dialogo tra imputati e parti offese sotto la guida di un mediatore professionale. È l’attuazione di un’esperienza sul campo che viene da lontano ed è nata dal confronto fra condannati per terrorismo e familiari delle loro vittime, raccontata efficacemente in un bel libro di Guido Bertagna, Adolfo Cerreti e Claudia Mazzuccato (Il libro dell’incontro), e nel magnifico reportage di Emanuel Carrere sul processo per la strage del Bataclan.
Insomma, il giustizialismo è la diramazione giudiziaria del populismo, per dirla con Francesco Petrelli nel suo bel libro (Critica della retorica giustizialista), il tentativo infantile di fornire risposte semplici a problemi complessi, dunque un’esplosiva miscela politica che va disinnescata e che deve diventare tema della campagna elettorale di un moderno partito innovatore, se è questo che Pd, Azione, +Europa – e anche IV – vogliono essere.
Ma vi è un ulteriore problema di cui ha parlato questo giornale e che potrebbe esplodere nel caso di vittoria del centrodestra: la riforma costituzionale dell’art.117 della Carta.
La proposta di Giorgia Meloni di togliere l’obbligo per lo Stato italiano di dare esecuzione alle sentenze delle Corti europee della Cedu e di Giustizia, farebbe sprofondare l’Italia al livello di Polonia ed Ungheria, sottoposte a procedura sanzionatoria per i loro tentativi di mettere sotto controllo la magistratura tramite organi disciplinari nelle esclusive mani del governo. Qui il rischio è quello di disattivare sentenze che hanno difeso i diritti umani dei detenuti, delle vittime e dei soggetti vulnerabili, del principio di legalità ma ancora di più di radere al suolo il delicato equilibrio giudiziario che regola i rapporti tra le corti europee e le giurisdizioni nazionali.
In base ad esso sono le Corti interne il giudice di ultima istanza che decide della compatibilità tra le sentenze europee e la propria Costituzione, un punto delicato per il quale la stessa Germania è entrata in conflitto con la Commissione europea, prima che la guerra congelasse tutto, anche i contrasti interni del governo dell’Unione Europea.
Ma lo scopo ultimo della destra meloniana – è palese – è quello di mettere le mani sull’autonomia della giurisdizione ai più alti livelli. Il prossimo Parlamento, del resto, dovrà nominare ben quattro giudici costituzionali e basta pensare a quanto è avvenuto nella Corte Federale americana per cogliere l’importanza della questione, abbastanza almeno diventi uno dei temi della battaglia elettorale: come il populismo, il giustizialismo è un problema politico che un moderno partito riformatore deve affrontare e non eludere.