Al confine tra Serbia e Kosovo non c’è stato un attacco militare, non è stato schierato un esercito pesante, non sta scoppiando una nuova guerra. Domenica sera c’è stato un nuovo, l’ennesimo, capitolo di una storia di tensioni politiche tra i due Paesi. Stavolta la scintilla è arrivata da un elemento apparentemente laterale, come le targhe delle auto.
In Kosovo è concesso l’uso di targhe emesse dalle istituzioni serbe, ancora molto diffuse tra la minoranza serba del Kosovo – ce ne sarebbero circa 50mila in circolazione nel Paese. Una nuova legge, però, renderà obbligatorio l’uso di targhe con l’acronimo Rks, cioè Repubblica del Kosovo. Il provvedimento, che sarebbe dovuto entrare in vigore alla mezzanotte tra domenica e lunedì, è stato rimandato di un mese perché aveva alimentato molte proteste negli ultimi giorni.
La popolazione serba del Kosovo è molto riluttante nel riconoscere l’autorità di Pristina: di fatto vive come se facesse ancora parte della Serbia, usando quindi anche targhe e documenti emessi Belgrado. Proprio come se l’entità politica kosovara non esistesse o fosse una regione del loro Paese.
Così domenica sera centinaia di serbi del Kosovo hanno ammassato camion, autocisterne e altri veicoli pesanti sulle strade che portano ai valichi di Jarinje e Brnjak. Alcuni uomini armati hanno sparato contro gli agenti di polizia del Kosovo lungo il confine: nessuno è rimasto ferito dagli spari, ma in risposta alle violenze gli agenti di Pristina hanno chiuso i due valichi di frontiera a Nord del Paese.
Il presidente serbo, Aleksandar Vučić, uno cresciuto politicamente all’ombra di leader come Vojislav Seselj e Slobodan Milosevic, ha provato a soffiare sul fuoco delle proteste dicendo che la situazione in Kosovo «non è mai stata così complessa» per la Serbia e per i serbi che vivono lì (la maggior parte vive in quattro città nel Nord del Kosovo).
In realtà questo genere di frizioni rientra nella normalità delle relazioni tra due Paesi che non riescono a convivere: «Nel dossier kosovaro la tensione è come una linea curva che punta verso l’alto: non ci sono grossi picchi, ma è evidentemente una questione aperta e non risolta», dice a Linkiesta Giorgio Fruscione, analista dell’Ispi specializzato nei Balcani. «Purtroppo quel che è successo domenica, spari compresi, è ormai la normalità tra i due Paesi».
La storia delle targhe, per quanto possa apparire marginale, ha un valore sia politico sia simbolico: «Il riconoscimento reciproco delle due motorizzazioni è l’ennesima dimostrazione che quello kosovaro è un dossier tutt’altro che chiuso, e che la mediazione europea non ha fatto grossi progressi negli ultimi dieci anni», dice Fruscione.
I confini nazionali sono il primo e più evidente simbolo di sovranità di uno Stato: doversi dotare di una documentazione differente al passaggio di una certa linea di frontiera significa di fatto dover riconoscere l’autorità di un altro Stato. È per questo che un elemento apparentemente marginale come le targhe alimenta il clima di tensione.
Da entrambi i lati della frontiera non c’è però interesse ad alzare più di tanto l’asticella. La stessa Belgrado, che ha risorse e mezzi maggiori rispetto al Kosovo, si limita a minacciare l’escalation, ma non avrebbe leve per portare avanti un’operazione militare.
Intanto perché, come abbiamo visto anche altrove in Europa in queste settimane – cioè al confine tra Russia e Ucraina – la guerra costa moltissimo in termini economici, militari, quindi anche politici. E poi anche perché l’interesse primario della Serbia, e del presidente Aleksandar Vučić, è dimostrarsi vicina alla popolazione serba in Kosovo, offrire protezione in un certo senso. Mentre dall’altro lato il governo di Pristina cerca legittimità provando a imporre il principio di reciprocità, mettendo il vicino nella condizione di riconoscerne l’autorità: in questo caso è come se il governo di Albin Kurti dicesse: «La Serbia non riconosce la nostra motorizzazione e le nostre targhe, noi facciamo lo stesso».
L’eco mediatica riscossa dalla notizia di domenica sera, però, non è casuale. Secondo Fruscione la guerra in Ucraina ha «in un certo senso sensibilizzato l’opinione pubblica su certe tensioni internazionali». Ma non solo. In Kosovo è presente un contingente Onu formato da poco meno di 4mila soldati di 28 diversi Paesi, molti dei Paesi Nato o alleati, Italia compresa. E sul dossier pesa anche l’influenza russa, ovviamente.
Negli ultimi anni la Serbia ha mantenuto un’equidistanza di facciata tra l’Occidente e la Russia, schierandosi di volta in volta in favore dell’uno o dell’altro schieramento secondo convenienza. L’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio avrebbe dovuto cambiare ogni prospettiva, ma sebbene Vučić si sia schierato in favore dell’integrità territoriale dell’Ucraina e abbia votato in favore della risoluzione delle Nazioni Unite che ha condannato l’invasione, la sua posizione complessiva è più sfumata rispetto al resto d’Europa: Belgrado si è opposta alle sanzioni contro Mosca.
La Serbia, candidata all’adesione all’Unione europea, ha mantenuto stretti legami con Mosca, con cui condivide l’opposizione forte all’alleanza militare della Nato.
Non è un caso che sui fatti di domenica sera la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, abbia accusato il premier Kurti di aver provocato le ultime tensioni e abbia chiesto «a Pristina, agli Stati Uniti e all’Unione europea di fermare le provocazioni e rispettare i diritti dei serbi in Kosovo».
Di contro, l’inviato nei Balcani dell’Unione Europea, Miroslav Lajcak, ha commentato positivamente la decisione del governo kosovaro di rimandare il provvedimento di un mese, sostenendo che questo periodo di tempo possa servire a entrambe le parti per tornare a parlarsi e trovare un punto d’incontro.