La profezia di Calenda Pd e Cinquestelle si danno appuntamento (a voce bassa) a dopo le elezioni

Il frontman del Terzo Polo sostiene che il 26 settembre Letta e Conte si alleeranno di nuovo, basta vedere le liste elettorali che hanno fatto. Del resto sono gli unici che non danno indicazioni chiare agli elettori sul prossimo premier

di Alain Pham, da Unsplash

“La profezia di Calendino”, parafrasando un best seller di alcuni anni fa, è semplicissima: «Cinque minuti dopo le elezioni – ha detto ieri il leader del Terzo polo aprendo le cinque dita – il Pd e il M5s si rialleeranno». Già, “cinque minuti dopo”, stavolta pare il titolo di un giallo di Cornell Woolrich o di Agatha Christie ma in realtà, per citare un altro poliziesco, in questo caso “la fine è nota”.

Facile profezia, quella di Carlo Calenda. Anzi, non è nemmeno una profezia, deriva dalla semplice lettura dei giornali degli ultimi giorni, una deduzione logica da tutto quello che sta avvenendo nelle ultime settimane. Enrico Letta ha perso per strada tutti i potenziali alleati – i cespugli dell’alleanza di sinistra non fanno molto testo a causa della loro esiguità – e ha bisogno di recuperarne qualcuno: non avendo avuto lo stomaco di allearsi elettoralmente col partito di Giuseppi, l’intesa è rimandata a “cinque minuti dopo le elezioni” nella previsione pressoché scontata di una inedita convergenza parallela: infatti entrambi, Letta e Conte, vanno a sinistra e finiranno per incontrarsi.

Il problema, come al solito, è che il Pd non lo dice a voce alta, non avendone probabilmente il coraggio e anzi evitando di innescare nuove tensioni interne. Pochi hanno notato la cosa bizzarra per cui il primo o secondo partito italiano è l’unico a non indicare una proposta politica chiara per il dopo-elezioni: la destra farà il nome di chi avrà preso più voti per guidare un esecutivo di destra, Calenda quello di Mario Draghi per «un governo di unità che tagli le estreme», il Pd boh.

Ma gli indizi sono tanti e portano ad un’unica soluzione: riagganciare un Conte che si è ripulito azzerando i Dibba, le Raggi e gli esponenti più penosi dei governi da lui guidati. Per la “sinistra thailandese”, che di fatto sta guidando il Nazareno, contiani e non si incontreranno sul terreno del populismo di sinistra, categoria non nuova nella storia d’Italia che Goffredo Bettini, uomo colto, finge di non capire cosa sia. Replicando a Massimo Recalcati ieri l’esponente dem ha spiegato cosa vuol dire per lui il termine “populismo” non accorgendosi di fare il ritratto del grillismo: «L’azzeramento di ogni intermediazione democratica, lo svilimento delle assemblee elettive, un rapporto diretto tra il capo e il popolo. Il capo si appropria della voce del popolo. Ne è il solo depositario. Ciò che si oppone è contro il popolo. La ricerca di un nemico è indispensabile. La pratica di governo è illiberale. Nella storia il populismo ha funzionato, e in molti casi, ha trascinato con sé l’elettorato; prima dell’inevitabile avvento della delusione».

Come fa Bettini a non vedere che quello che lui descrive, per criticarlo, è proprio il partito inventato da Grillo e mezzo sfasciato da Conte? Questi resta sempre quello che l’ex pupillo di “Goffredo”, Nicola Zingaretti, definì «il fortissimo punto di riferimento dei progressisti» e non a caso la corrente dell’uomo che fuggì dal Nazareno denunciando il peso delle correnti è quella che più intrattiene rapporti permanenti con i contiani. E se due più due fa quattro, si fa presto a concludere che l’avvocato del popolo, quello che «pone temi sociali come noi» (sempre Bettini), è tuttora l’oggetto del desiderio del gruppo dirigente di un Pd ormai depurato di ogni “scoria renziana” dopo le molteplici umiliazioni subite dagli esponenti di Base riformista nella vicenda delle liste elettorali.

Da parte sua, Conte-the-killer (di Draghi) è entrato nella terza tappa del suo percorso da autentico Fregoli della politica: dopo lo schiacciamento a destra (Conte 1), la virata al centro (Conte 2), adesso l’avvocato ha virato decisamente a sinistra, anche se non usa questo termine preferendogli quello meno impegnativo di “progressista” (questo lo fa anche Luigi Di Maio, che sarà nelle liste con Susanna Camusso): il combinato disposto di salario orario minimo-reddito di cittadinanza-riduzione dell’orario di lavoro configura un menù bertinottiano in salsa contiana che ben si salda non solo con i rossoverdi, ma anche con le indicazioni del capo della sinistra dem Andrea Orlando.

Tutta questa roba profuma molto di opposizione, che forse è una condizione persino desiderata a cospetto di un congiuntura difficilissima come quella che si prospetta per i prossimi mesi: un calcolo piuttosto cinico di un pezzo di ceto politico che cerca un albero sotto cui ripararsi per i prossimi cinque anni. Si va così sostanziando un abbraccio fra un Pd “diessizzato” e un M5s neo-rifondarolo per la gioia dei para-grillini nelle liste dem del fu Articolo Uno che in articulo mortis ha spuntato 4-5 seggi blindati mentre fior di riformisti dem sono stati mandati allo sbaraglio in collegi perdenti. La strada dunque pare segnata, il populismo di sinistra la trionferà.

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