E-wasteIl sottovalutato problema dei rifiuti elettronici in Europa

Quello elettronico è il flusso di immondizia in più rapida crescita nei 27 Stati membri. E ne viene riciclato meno del 40% del totale. Nel 2021 l’Italia ne ha smaltite 385mila tonnellate, rimanendo ampiamente al di sotto della media europea di 10 chili pro-capite annuali (circa 6,46 chili)

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«Innovare o morire». Il motto che per decenni ha caratterizzato l’industria tecnologica globale ha portato a una serie di ripercussioni ormai ampiamente tangibili. Da sempre, la stragrande maggioranza dei dispositivi prodotti nell’ambito tech ha bisogno di essere sostituita alla stessa velocità con cui emergono nuove tecnologie. Nel tempo, questa filosofia dell’obsolescenza programmata – sommata alla limitatezza di opzioni per la riparazione degli hardware dei marchi più noti – ha portato all’accumulo mondiale di ingenti quantità di rifiuti elettronici.

I dati più recenti delle Nazioni Unite indicano che nel 2019 il mondo ha generato ben 53,6 milioni di tonnellate di questa tipologia di rifiuti, di cui solo il 17,4% è stato riciclato. Per quanto riguarda l’Unione europea, quello elettronico è il flusso di immondizia in più rapida crescita e ne viene riciclato meno del 40% del totale. Nel 2021 l’Italia ne ha smaltite 385mila tonnellate, rimanendo ampiamente al di sotto della media europea di 10 chili pro-capite annuali (circa 6,46 chili).

I problemi derivati dai rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (spesso indicati con l’acronimo RAEE), in inglese e-waste, sono numerosi. La crescente diffusione dei device ha determinato un aumento del rischio di abbandono in discariche e termovalorizzatori; tuttavia, la presenza di sostanze tossiche per l’ambiente e il fatto che non siano biodegradabili comporta conseguenze pesanti in termini di inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria, con ripercussioni anche sulla salute umana.

L’anno scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che lo smaltimento e il trattamento di questi scarti può causare una serie di «impatti negativi sulla salute dei bambini», tra cui alterazioni della funzionalità polmonare, danni al Dna e aumento del rischio di malattie croniche quali il cancro e quelle di natura cardiovascolare (attraverso l’esposizione prolungata e l’avanzare dell’età). Inoltre, nel mondo ci sono più di 18 milioni di bambini e adolescenti «attivamente impegnati» nell’industria della lavorazione dei rifiuti elettronici. I minori sono spesso utilizzati per setacciare montagne di immondizia alla ricerca di materiali preziosi come rame e oro in quanto «le loro piccole mani sono più abili di quelle degli adulti».

In Europa, i grandi elettrodomestici – come lavatrici e stufe elettriche – costituiscono più della metà di tutti i rifiuti elettronici raccolti. Seguono le apparecchiature informatiche e di telecomunicazione (laptop, hard disk, stampanti), le apparecchiature di consumo (videocamere, smartphone), i pannelli fotovoltaici e i piccoli elettrodomestici (aspirapolvere, tostapane). Le restanti categorie, dagli utensili elettrici ai dispositivi medici, rappresentano solo il 7,2% del totale. Stando agli ultimi dati dell’Eurostat, inoltre, nel 2017 la Croazia è stato il Paese più virtuoso in termini di riciclaggio di e-waste, con un tasso di trattamento dell’81% di tutti i rifiuti. Il peggiore è stato Malta – 21% -, con l’Italia che ha fatto registrare un insoddisfacente 32%.

Come ribadito più volte dalle istituzioni, è importante che questi scarti vengano trattati correttamente e siano destinati al recupero differenziato dei materiali di cui sono composti (ferro, alluminio, rameacciaio, argentooropiombo, vetro, mercurio…) evitando così uno spreco di risorse che, viceversa, possono essere riutilizzate per la costruzione di strumentazioni nuove.

Il vero problema, a ogni modo, è che l’onere e i danni dei rifiuti elettronici ricadono spesso sui Paesi in via di sviluppo. Molti Stati, tra cui quelli europei, hanno reso illegale lo smaltimento di materiali tech nelle discariche, a causa del rischio di dispersione di sostanze chimiche tossiche (specialmente le tossine contenute nel piombo e nel cadmio) che possono alterare l’ecosistema. 

Molte nazioni povere invece non dispongono di tali leggi né hanno la capacità di rifiutare le importazioni di tutta questa sovrabbondanza di vecchi prodotti. Per ovviare al problema, la Rete internazionale per la gestione dei rifiuti elettronici gestita dall’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha dato vita nel 2018 a un progetto che coinvolge undici Paesi in via di sviluppo (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Egitto, Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia, Tuvalu e Vietnam), con l’obiettivo di valutare i possibili mercati per i materiali e-waste, in modo da proteggere le persone e l’ambiente anche attraverso una migliore interazione con l’industria tecnologica.

L’Agenzia europea per l’ambiente, a sua volta, stima che ogni anno vengano spedite illegalmente fuori dall’Unione tra 250mila e 1,3 milioni di tonnellate di prodotti elettrici usati, per lo più verso l’Africa occidentale e l’Asia. Ma Bruxelles si sta muovendo per risolvere questo problema? 

Nel marzo 2020 la Commissione europea ha presentato un piano d’azione per l’economia circolare che aveva tra le sue priorità la riduzione dei rifiuti RAEE. In particolare, la proposta definiva obiettivi immediati come l’ottimizzazione del «diritto alla riparazione» dei prodotti elettronici (e della riutilizzabilità in generale) e l’istituzione di un sistema di premi per incoraggiarne il riciclaggio.

Nel febbraio 2021 il Parlamento ha poi adottato una risoluzione sul piano d’azione, chiedendo misure aggiuntive per raggiungere entro il 2050 un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, priva di sostanze tossiche e completamente circolare. Nel documento erano previste regole di riciclaggio più severe e obiettivi vincolanti per l’uso e il consumo dei materiali – anche elettronici – entro il 2030.

Sulla scia delle misure adottate per tenere fede al piano – il cosiddetto Green Deal -, nel settembre 2021 la Commissione ha fatto un passo avanti decisivo, istituendo una soluzione di ricarica comune per la maggior parte dei dispositivi elettronici portatili. Una volta in vigore, tutti i device (smartphone, tablet, e-reader, auricolari, fotocamere, cuffie, console di gioco, altoparlanti, dispositivi di navigazione, tastiere e mouse per computer) richiederanno lo stesso tipo di caricabatterie, ovvero l’Usb-C. Una mossa che ridurrà in modo significativo il numero di cavi prodotti e venduti.

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