«È un killer silenzioso, continua ad uccidere senza fare il botto, come invece farebbe una pistola. Arriva, si insinua e pianta le sue fibre all’interno del tuo corpo. E tu, ti ammali». Anche se ormai sono passati trent’anni dall’introduzione in Italia della Legge n. 257 del 1992, che ha bandito tutti i prodotti e i materiali contenenti amianto e ne ha vietato anche l’estrazione, l’importazione, la produzione e la commercializzazione, come ci ha detto Alberto Alberti, consigliere Anmil (Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro), di amianto si muore ancora.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a livello globale sono più di 100mila i decessi annui per esposizione all’amianto. In Italia se ne attestano in media fra i 2mila e i 3mila. È vero: i morti di oggi sono gli ammalati di ieri, persone che sì, sono state a contatto con l’amianto, ma in passato. Le sue fibre, che possono portare ad asbestosi e a vari tipi di tumori (il più tipico è il mesotelioma, che colpisce le pleure e il peritoneo e per cui non c’è guarigione), agiscono in latenza: affinché tali malattie si manifestino, ci vuole un certo tempo.
Possono volerci anche 20, 30 anni o di più. Ma in un’ottica futura, e considerando che ad oggi l’amianto è ancora presente in grosse quantità sul nostro territorio, gli ammalati di domani potrebbero non essere molti meno di quelli attuali. Secondo le ultime stime del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) e di Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) in Italia ci sono ancora 32 milioni di tonnellate di amianto – ma appunto, sono solo stime – con 38 mila siti a rischio e un miliardo circa di metri quadrati di coperture in eternit (cemento e amianto) posizionate ancora sui tetti di case, scuole, fabbriche, e molte altre strutture.
Morì per un mesotelioma da esposizione ad amianto anche il sottufficiale motorista Camillo Limatola, deceduto nel 2013 a 59 anni – a distanza di due anni dalla diagnosi – dopo essere stato dipendente della Marina Militare tra il 1973 e il 1978 in Sardegna e in Campania. Per la sua morte il tribunale di Roma ha deciso lo scorso agosto che il ministero della Difesa dovrà risarcire la famiglia con 1,3 milioni di euro.
Ma non va sempre a finire così, anzi: «Ci sono dei tumori al polmone che possono essere confusi (ma io dico di no) ad esempio con tumore da fumo. Ma il cancro al polmone copre le spalle a molte persone che non vogliono riconoscere il danno a chi hanno ucciso», dice Alberti. Nei casi di mesoteliomi o asbestosi, infatti, i medici tendenzialmente collegano la malattia all’amianto. D’altronde «se una persona ha lavorato in un ambiente dove c’era esposizione di amianto, non puoi andare a cercare le colpe in qualcosa altro». Se invece si tratta di un cancro ai polmoni, spesso la diagnosi è imputata al fumo (attivo o passivo che sia) o all’esposizione di altre sostanze cancerogene.
«Io ho partecipato al processo di Mantova, dove c’erano 120 persone morte per esposizione ambientale all’amianto, e 60 di loro anche per contatto con altri prodotti cancerogeni. Gli esposti all’amianto riconosciuti sono stati 10, tutte persone che non fumavano. Gli altri che fumavano sono stati esclusi», aggiunge Alberti.
Ma perché ci si ammala così tanto di amianto? Il problema sta nella sua composizione, che è particolarmente fibrosa: «L’amianto, che è un minerale che si estrae dalle montagne, è fatto di tantissime fibre, molto piccole, che hanno una caratteristica particolare che è quella di penetrare, se “sollecitate”, negli alveoli polmonari e cicatrizzarsi lì», ci ha detto Fulvio Aurora, Segretario nazionale dell’Associazione italiana esposti amianto (Aiea). Una lastra di eternit è infatti sensibile agli agenti atmosferici, e la “sollecitazione” da parte di vento, aria e sole fa disperdere le sue fibre nell’aria.
È importante per questo capire che «quando per l’amianto si parla di materiale “integro” non si intende un materiale che non si è spezzato», ha precisato Alberti. «L’erosione del vento fa sì che il materiale non sia giù più integro». Tuttavia l’amianto è stato considerato per moltissimi anni il materiale del secolo. Appellativo che gli è stato affibbiato per via delle sue innumerevoli proprietà. Per citarne alcune: è versatile, termoisolante e fonoassorbente, e soprattutto, costa poco. Un materiale che nel tempo ha avuto fino a 3mila impieghi diversi e la cui duttilità ha portato non poche difficoltà nel metterlo fuori legge.
Ce lo siamo ritrovati «nell’edilizia, nella meccanica, e anche sulle tavole come sottofondo delle pentole, sugli assi da stiro». In meccanica veniva usato come guarnizione, spesso montate su caldaie ad alte pressioni. Era usato per produrre teli, per la protezione individuale infortunistica e per i guanti da lavoro, «che costavano pure un sacco: per questo i saldatori, quando finivano di lavorare e per paura che gli venissero rubati, li tenevano nella cinta della tuta. I fuochisti delle caldaie, come me, li avevano sempre con loro», ci ha raccontato Alberti.
«L’amianto veniva usato anche negli intonaci delle case e nelle vernici: abbiamo anche scoperto che nel 1.500 era usato per curare il “lattume” nella testa dei bambini o che addirittura veniva usato per suturare le ferite», continua. La prima volta che si è intuito che l’amianto fosse un materiale pericoloso è stata nel 1898, grazie ad un’ispettrice del lavoro inglese, ma «molti lavoratori venivano tenuti nell’ignoranza, si rischiava di perdere un sacco di soldi. Su Stephan Schmidheiny ad esempio, imprenditore e proprietario a Casale Monferrato (Alessandria) dell’azienda Eternit, esistono delle registrazioni in cui dice che è meglio che i lavoratori non sappiano queste cose».
La conseguenza, come ci racconta Alberti, è che proprio a Casale Monferrato, a trent’anni dalla chiusura di Eternit e nonostante la bonifica, continua a morire di amianto una persona alla settimana. «È morto il prete, è morto il salumiere, il barbiere… i lavoratori, che avevano perfino le fibre tra i capelli, quando andavano da lui a tagliarseli lo esponevano all’amianto. La gente del posto diceva “ma qui è nevicato, che cos’è tutto questo bianco per terra”», ma era agosto, e quella polvere era amianto sparato all’esterno dalle ventole delle fabbriche.
A distanza di trent’anni dalla legge 257 non esiste ancora una mappatura precisa che stabilisca con quanto amianto ci sia sul territorio. Nel 2007, prima che cominciassero le scuole, lo Stato aveva dato ordine ai comuni di indentificare tutte le aree sospette e bonificare i locali dove i ragazzi frequentavano le lezioni. Ancora oggi però ci sono delle scuole piene di amianto. Secondo le analisi di Legambiente, unitamente ai dati forniti dall’Osservatorio nazionale amianto, sarebbe il 4,3% degli edifici scolastici a essere ancora contaminato – cioè almeno 2.500 strutture – e più di 120 persone sono morte negli ultimi 20 anni.
Ma non è tutto negativo. «In provincia di Latina, il comune di Bassiano ha drasticamente ridotto i decessi da amianto dopo aver bonificato tutto il territorio. Sono quasi zero». D’altronde incentivare la bonifica converrebbe su diversi fronti, sia dal punto di vista umano che economico. «Una persona che muore di amianto, di mesotelioma, costa circa 200mila euro. Nel 2021 in Italia sono morte 4.412 persone di amianto, fra esposizione per lavoro e quella ambientale. Facendo due conti…», sottolinea Alberti.
«Molte persone mi danno ragione, ma quello che mi chiedono spesso è: dove mettiamo l’amianto che bonifichiamo?». Ad oggi è la Germania, dietro compenso economico, a farsi carico della maggior parte del nostro amianto. Nella zona della Ruhr, il minerale ritirato viene posizionato all’interno delle miniere di salgemma, che però iniziano ad essere piene. Tuttavia delle regole per effettuare una corretta bonifica (e tenersi in patria l’amianto) ci sono e sono state studiate a lungo. Bisogna prima di tutto incapsulare la lastra di eternit – cioè verniciarla con un collante che tenga bloccate le fibre – per poi accatastarla alle altre (per un massimo di 12 lastre una sopra l’altra).
La “pila” viene impacchettata con del nylon e sigillata con del nastro da pacchi. Secondo le parole di Alberti, «una volta che la lastra è trattata in questo modo, se il pacco si prende e si mette in un capannone dove sono chiusi gli scarichi fognari, dove sono tamponate le finestre e qualsiasi contatto con l’esterno è bloccato, è piuttosto sicuro. Addirittura c’è la possibilità, prima di lasciarle in capannone, di mettere queste lastre in contenitori di plastica, appositamente progettati. Con questo livello di sicurezza, dove potrebbe andare mai l’amianto?».
Certo, questa non può essere la soluzione per smaltire tutte le tonnellate sparse per il territorio, piuttosto un modo per tamponare l’emergenza. Bisognerebbe infatti iniziare a studiare seriamente dei metodi efficaci per inertizzare il materiale. Una volta cambiata la sua natura, l’amianto, non più nocivo, si potrebbe utilizzare anche come riempitivo dell’asfalto, ad esempio, e delle strade.
Ma fino ad allora il nostro compito, quello più importante, è segnalare la presenza di amianto sui tetti delle case o dovunque esso sia. E se le autorità locali non si comportano adeguatamente, si può procedere con una denuncia scritta alla medicina del lavoro, come suggerisce Alberti.
«Può capitare che dopo una segnalazione, gli addetti locali ci dicano “per me è integro”, quindi inerte, e vadano via con nulla di fatto. Come fa ad essere integro se è lì da almeno 30 anni ed è esposto agli agenti atmosferici? Lo sa che integro vuol dire “non eroso dal vento?”. Sostanzialmente, di integro non è rimasto praticamente niente. Per questo motivo, all’inizio lei mi ha chiesto se l’amianto uccide ancora. Sa cosa le rispondo? Urca se uccide!», conclude il consigliere Anmil.