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Dentro e fuoriL’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento nella società

Un percorso professionalizzante può essere la via migliore per combattere la recidiva e creare opportunità per una vita diversa. Molti progetti di aziende e cooperative coinvolgono le persone detenute, ma la quota maggiore di impieghi arriva ancora dalle amministrazioni penitenziarie

Tratto da Morning Future

Il reinserimento in società è una priorità del nostro sistema carcerario. Un percorso fondamentale che passa, e che deve passare, anche dal lavoro e dalla formazione.

Il lavoro è un’opportunità quasi indispensabile, che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per la Trasformazione Digitale hanno voluto sottolineare firmando il memorandum d’intesa “Lavoro carcerario”, per un progetto con cui le grandi aziende delle Tlc e dell’Ict – Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone, Windtre, Open Fiber, Sielte e Sirti – entrano in carcere e offrono un lavoro alle persone detenute.

L’obiettivo dell’iniziativa è «proporre opportunità professionali, formare competenze specializzate e favorire il reinserimento sociale delle persone detenute». Dopotutto, la premessa di questo accordo è uno dei valori espressi dalla Costituzione italiana: «L’importanza del lavoro è una componente decisiva e essenziale per garantire il volto costituzionale della pena che, ricordiamolo, secondo l’articolo 27 della Costituzione è sempre orientata alla rieducazione, risocializzazione e reinserimento di tutti i condannati», ha detto la Ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Sono 2.326 le persone detenute ritenute idonee al lavoro all’esterno delle strutture penitenziarie in termini di requisiti personali e di legge. Circa un centinaio prenderà parte alla prima fase di sperimentazione e formazione che si terrà presso tre istituti selezionati.

In generale, il lavoro in carcere rappresenta uno degli strumenti più validi: occupa il tempo della pena in maniera costruttiva, contribuisce a una formazione e a creare un’attitudine al lavoro. E nelle carceri in cui si lavora i problemi disciplinari sono meno frequenti.

Ma non è tutto così semplice. «Nonostante gli incentivi sulle tasse e altre agevolazioni, non sempre le aziende guardano al carcere per cercare forza lavoro», spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione. «Tutti sanno che ci sono enormi vantaggi, che è importantissimo portare il lavoro ai carcerati, ma è altrettanto vero che tutti gli imprenditori sanno che ci possono essere complicazioni legate al lavoro carcerario: se succede un incidente, tutto si ferma, magari anche per un periodo lungo. Per un imprenditore che guarda al profitto può essere difficile fare una scelta del genere».

Ecco perché, spiega Scandurra, «meglio tanti piccoli progetti che un singolo progetto grande, così magari c’è anche più ricambio. I lavori che hanno standard di professionalità alti, o comunque paragonabili alla vita fuori dal carcere, avranno inevitabilmente numeri piccoli, perché raramente le persone detenute raggiungono gli standard di formazione richiesti».

Un esempio virtuoso in questo senso è certamente “Riparto da me”: progetto, ideato dalla Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, che ha come obiettivo l’inclusione lavorativa delle persone detenute di Bollate.

«È una grande opportunità per vedersi finalmente come lavoratori e sentirsi pienamente partecipi della società», ha spiegato a Linkiesta Roberto Bezzi, direttore dell’area educativa della Casa di Reclusione di Milano-Bollate. Giunto alla seconda edizione, dopo lo stop imposto dalla pandemia, nel 2022 il progetto ha coinvolto 30 persone, raddoppiando quindi i beneficiari rispetto alla prima edizione pilota.

Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il lavoro carcerario in Italia è cresciuto nel corso degli anni. L’occupazione lavorativa può svolgersi alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria così come alle dipendenze di soggetti esterni. Spesso, però, si tratta di lavoro limitato a periodi brevi, con orari giornalieri ridotti e dedicato al funzionamento interno alla struttura penitenziaria.

Perché, come spiega Alessio Scandurra, «di solito l’employer è il carcere: l’Amministrazione Penitenziaria, a differenza dell’azienda privata, ragiona più con un’ottica di welfare e cerca di far arrivare i soldi in tasca di più persone, anche se magari sono pochi soldi e se è un tipo di lavoro non professionalizzante e non qualificante».

Nel 2021 l’osservatorio Antigone ha visitato 96 istituti in tutta Italia. Dai dati raccolti durante le visite risulta che, in media, lavorava per l’Amministrazione Penitenziaria il 33% delle persone detenute presenti, mentre lavorava per datori di lavoro esterni solo il 2,2%. E ai corsi di formazione professionale partecipa solo il 2,3%.

L’Amministrazione Penitenziaria assicura lavoro a circa un terzo delle persone detenute, ma si tratta quasi sempre di lavoro poco qualificante, che non sempre fornisce competenze realmente spendibili fuori dalla struttura carceraria, nel mercato del lavoro.. «Già stare in cucina è diverso, perché è un tipo di occupazione che si presta a una rotazione meno frequente, dunque è meglio che chi acquisisce le competenze rimanga in cucina», dice Scandurra.

Poi ci sono lavori per l’Amministrazione Penitenziaria che hanno a che fare con lavorazioni industriali, e questi consentono un grado di specializzazione leggermente superiore. «Esempi molto validi si possono trovare nella struttura di Massa, dove si producono lenzuola e coperte per il carcere. A Sulmona, in cui si lavora alle calzature, e in Sardegna e sull’isola di Gorgona, in cui si svolgono lavorazioni articolate e professionalizzanti in ambito agricolo. Ma coinvolgono numeri contenuti di detenuti, meno di 2mila in tutto», spiega Scandurra.

Le aziende private hanno un’incidenza ancora minore statisticamente, ma non sono un’eccezione. E ci sono imprese che hanno obiettivi di solidarietà già nella loro mission. Un caso certamente riuscito è quello di Bee4, impresa sociale che svolge attività volte al reinserimento lavorativo, all’interno della Casa di Reclusione di Milano a Bollate, per offrire opportunità di riscatto a chi è in carcere.

Si tratta di una cooperativa sociale che permette alle persone detenute di saldare mensilmente la quota di mantenimento in carcere, oltre alla possibilità di pagare spese processuali, multe e risarcimenti «e di provvedere al sostentamento proprio e della propria famiglia attraverso una politica di equa e commisurata remunerazione nel pieno rispetto di quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato alle Cooperative sociali» – si legge nel loro statuto.

Ma non è l’unico caso. La Cooperativa sociale Giotto, con sede a Padova, nata nel 1986 dall’iniziativa di un gruppo di laureati in scienze agrarie e forestali, offre attività che spaziano dalla progettazione, realizzazione e manutenzione del verde ai servizi ambientali, comprese le pulizie civili e industriali, dalle attività di contact center ai servizi amministrativi di back office, dalla gestione di parcheggi ai servizi museali e di portierato, fino all’attività di assemblaggio di prodotti di ogni tipo. L’avventura nel carcere Due Palazzi di Padova è iniziata nel 1991, con un corso di giardinaggio.

In Italia, il tasso di recidiva tra coloro che hanno scontato una pena in carcere è del 68%. Ma le probabilità che si torni a delinquere si abbassano se, durante la detenzione, la persona detenuta ha avuto la possibilità di accedere a corsi di istruzione e formazione e se le viene offerta l’opportunità di lavorare. Per le persone detenute che non svolgono programmi di reinserimento, il tasso di recidiva sfiora il 90%, mentre tra coloro che vengono accolti in un contesto socio-lavorativo scende al 10%.

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