Punti di riferimentoLetta toglie a Conte la patente di progressista, ma solo per restituirgliela dopo il voto

Il Pd non ha mai chiarito davvero come la pensa, perché in verità vorrebbe recitare entrambe le parti in commedia: come massimo difensore del governo Draghi fino al giorno del voto e come alleato strategico del suo principale avversario dal giorno dopo

di Artem Maltsev, da Unsplash

Tutto può rimproverare a Giuseppe Conte il Partito democratico, ma proprio tutto, tranne quello di cui lo accusa ora Enrico Letta, quando gli dice: «Progressisti non ci si inventa». Non perché, intendiamoci, la nuova identità progressista dell’Avvocato del popolo non sia un’invenzione, e delle più strampalate; ma perché non è stato lui, obiettivamente, a inventarsela, non è suo il brevetto e non è sua la pensata.

Come tutti sanno, il copyright della definizione di «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» è infatti dello stesso Partito democratico. Per la precisione di Nicola Zingaretti, il predecessore di Letta, dal quale Letta non si è mai voluto minimamente discostare, nonostante non mancasse chi (per esempio da queste pagine) lo esortava in tal senso.

Nemmeno la rottura della maggioranza che ha provocato la caduta del governo Draghi è bastata finora a fare davvero chiarezza, come attestano le infinite dichiarazioni di gran parte del gruppo dirigente del Pd in favore di un pronto riavvicinamento ai Cinquestelle all’indomani del voto (anche perché i dirigenti più ostili all’ipotesi sono stati quasi tutti fatti fuori dalle liste).

Si delinea così la possibilità di un clamoroso paradosso. Il fallimento del tentativo di polarizzare la campagna elettorale tra Pd e Fratelli d’Italia – la principale e più azzardata scommessa di Letta – lascerebbe infatti ampi margini di crescita alle forze esterne alle due coalizioni, a cominciare dal Movimento 5 stelle. E così, a meno di un improbabile sorpasso da parte del cosiddetto terzo polo (che ha avuto la fortuna di farsi battezzare quando le opzioni alternative erano solo due), la stessa disfatta del Pd verrebbe utilizzata come argomento per rilanciare la linea dell’abbraccio con i grillini. Assisteremmo cioè al caso più unico che raro di un capitano che utilizza il proprio naufragio come argomento a favore della riconferma di se stesso, dell’intero equipaggio e della rotta seguita fin lì (peraltro con buone probabilità di ottenerne due su tre).

D’altra parte, bisogna decidersi: o i democratici danno ragione a Conte quando rivendica la scelta di non votare la fiducia al governo Draghi per combattere contro il termovalorizzatore di Roma, il sostegno all’Ucraina e tutte le principali scelte compiute dall’ex presidente della Bce, e allora non si capisce perché non si presentino con lui alle elezioni, oppure gli danno torto, rivendicano un’altra linea e un’altra cultura politica, e ne traggono le conseguenze. O inneggiano alla cosiddetta agenda Draghi o strizzano l’occhio a chi, come Conte, non esita a definirla «un’agenda incomprensibile che non auspico per la salute della democrazia».

Avere preteso fino a un minuto prima della rottura che Conte non fosse il leader di un movimento populista incompatibile con qualsiasi idea di sinistra democratica e riformista, e tanto più incompatibile con la linea del governo Draghi, ma il fortissimo punto di riferimento di cui sopra, ha prodotto lo spiazzamento del Pd quando quella contraddizione è inevitabilmente scoppiata e il Movimento 5 stelle ha fatto l’unica cosa che poteva fare per non estinguersi, cioè rivendicare i suoi principi e i suoi provvedimenti. Quegli stessi provvedimenti che Draghi, altrettanto giustamente, ha preso di mira nel discorso che ha preceduto il voto di fiducia, confermando la distanza incolmabile dal populismo grillino.

Di fronte all’impossibilità di schierarsi al tempo stesso con Draghi e con Conte, con l’Ucraina e con la Russia, per il termovalorizzatore e contro il termovalorizzatore, a quel punto, preso dal panico, il Partito democratico ha cominciato a sbandare da una parte all’altra, prima buttandosi su Carlo Calenda e Matteo Renzi e un minuto dopo su Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. Ma non ha mai detto davvero come la pensa, e continua a non chiarirlo, perché in verità vorrebbe recitare entrambe le parti in commedia, come massimo difensore del governo Draghi fino al giorno del voto e come alleato strategico del suo principale avversario dal giorno dopo.

Ecco perché il Pd rifiuta sistematicamente di prendere atto del fatto che le scelte compiute da Conte qualificano la sua linea e la sua cultura politica in modo chiarissimo, perfettamente coerente con quella che è sempre stata la natura di un movimento populista e antipolitico, che tutto è meno che progressista (semmai regressista). Ma è una furbizia che rischia di ritorcersi contro lo stesso Partito democratico, perché la mancata polarizzazione e il basso livello di mobilitazione, dovuti forse anche alla consapevolezza del fatto che il risultato è già scritto, rischia così di fargli perdere consensi in entrambe le direzioni: i populisti verso Conte e i riformisti verso Calenda.

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