Un uso singolareL’orrore dei finti pluralia tantum, per cui una storia di Instagram diventa una “stories”

Tra i più famosi ci sono “jeans”, ma anche “media” e “murales”. Tutte parole che vengono usate, in modo improprio, anche se il soggetto è uno solo e rappresentano un campo minato della grammatica (e dell’estetica)

di Andrew Seaman, Unsplash

Chi ha studiato il latino probabilmente ricorderà i nomina pluralia tantum: sono quei sostantivi che hanno la particolarità di possedere soltanto la forma plurale pur riferendosi a realtà singole, per esempio nuptiae, exequiae, kalendae, arma, optimates, moenia. Conoscono solo il plurale anche diversi nomi geografici, come Athenae, Syracusae, Thebae, Venetiae, Cannae, Cumae, Pompeii, Alpes, Cyclades, nonché quelli di figure della religione o del mito, come Manes, Penates, Furiae, Lares.

Anche l’italiano ha i suoi pluralia tantum: alcuni tratti di peso dalla lingua dell’Urbe (nozze, esequie), altri (non molti) suoi propri (viveri, traveggole). Altri ancora sono nati come pluralia tantum ma col tempo hanno altresì sviluppato la forma singolare, che in alcuni ambienti addirittura prevale: occhiali/occhiale, forbici/ forbice, pantaloni/pantalone. C’è però anche un crescente numero di parole di provenienza straniera entrate in Italia al plurale ma impropriamente trattate come se fossero sostantivi singolari: pluralia tantum apparenti, in realtà svarioni indifendibili. E infatti, al contrario dei veri pluralia tantum, che coerentemente vogliono predicato, copula e eventuali aggettivi e articoli al plurale (“Athenae sunt in Graecia”, “le nozze sono state celebrate…”), gli pseudo pluralia tantum incoerentemente (s)concordano al singolare.

Un esempio classico è la parola jeans – dal toponimo scritto sui carichi delle tele che nel XVI secolo cominciarono ad arrivare a Londra da Genova, Jeane – che in inglese è un sostantivo plurale e tale è transitato in italiano, prima di diventare singolare nel lessico standardizzato dei negozi di abbigliamento quando gli addetti alla vendita snocciolano le loro considerazioni sapienziali (“il jeans è un capo che veste…”). Non è ancora un classico ma potrebbe diventarlo il vocabolo (al plurale) stories, che nel linguaggio di Instagram e Facebook sono quei brevi testi o video o foto che si possono condividere in una sezione dedicata del proprio profilo e rimangono visibili per 24 ore: pur esistendo il conforme (quasi identico) termine italiano, tanto per il plurale quanto per il singolare, è piuttosto rare trovare qualcuno che dica (e scriva) “la mia storia”, o al limite “la mia story”, perché assurdamente si è imposto il sintagma “la mia stories”.

Un po’ come avviene con l’inglese fan – abbreviazione di fanatic, ammiratore fanatico, tifoso (di squadre di calcio, campioni sportivi, cantanti, ormai anche di leader politici, stili di vita e movimenti pro o contro qualcosa) – che non di rado in Italia diventa plurale (“mia moglie è diventata una fans del biologico”). Oppure con le clips, i piccoli fermagli di metallo o di plastica che usiamo per tenere uniti fogli di carta e banconote, che in inglese sono provvisti della regolamentare forma singolare ma in italiano pare conoscano soltanto il plurale, anche quando si riferiscono a un fermaglio singolo (“per favore, passami una clips”); salvo recuperare il singolare quando il riferimento non è più al fermaglio ma, come forma abbreviata di videoclip, alla “breve registrazione audiovisiva realizzata, spec. ai fini della programmazione televisiva, per accompagnare e pubblicizzare un brano di musica leggera” (Treccani), adattamento del secondo significato registrato nei vocabolari inglesi, in quanto “breve parte di un film che viene mostrato separatamente” (Oxford Dictionary). 

Un caso ambiguo è invece quello di un altro termine di gran moda, media, arrivato in Italia direttamente da oltremanica (e oltreoceano) dove può essere sia singolare sia plurale – sebbene stia ultimamente affacciandosi un apposito plurale medias – ma nel latino da cui è stato preso, e da cui la nostra lingua discende per li rami, è in realtà il neutro plurale di medium, mezzo: siccome però in italiano questa parola fa inevitabilmente pensare a tenebrose sedute intorno al tavolino a tre gambe, il suo impiego come singolare di (mass) media risulta un po’ ostico, e per lo più si continua a usare come singolare la forma che in latino è plurale e in inglese sia plurale sia singolare. (Specularmente inverso il caso di curriculum, vocabolo latino adottato dall’italiano come tendenziale singularium tantum, il cui plurale curricula stenta ad affermarsi al fuori degli ambiti colti e ufficiali).

Ma è soprattutto dallo spagnolo che vengono gli pseudo pluralia tantum penetrati nel nostro linguaggio. Murales, silos, vigilantes, peones sono tutti sostantivi che nel vocabolario d’origine si giovano di un loro ovvio singolare, in italiano, chissà perché, sistematicamente negletto: “La mela che ammalia gli elettori in un murales” (titolo di un trafiletto, su un quotidiano di qualche giorno fa), “si è di nuovo guastato l’autosilos”, “davanti alla banca stazionava un vigilantes”, “l’onorevole XY si è stancato di essere considerato un peones”. Nel caso dei forestierismi c’è una norma – non univocamente applicata – che li vorrebbe invariabili al plurale, ma nessuna norma prescrive l’invariabilità al singolare della loro forma plurale.

Siccome lo spagnolo sviluppa il plurale aggiungendo una s (preceduta da e quando la parola termina con una consonante), ricavare il singolare dalla forma con cui il prestito si è presentato nella nostra lingua non dovrebbe essere difficile. Il singolare di silos, nella lingua d’origine, è quindi silo (dal latino sirus, greco seirós o sirós che significa granaio) e non si vede ragione perché non debba essere così anche in Italia, dove la parola ha fatto la sua comparsa fin dalla prima metà dell’Ottocento, per generare nel corso del secolo successivo una numerosa (non troppo fortunata, per la verità) famiglia di voci derivate, quali insilare, insilamento, insilatore –trice. Conseguentemente, in quanto vocabolo ormai assunto nel lessico italiano, dovrebbe formare il plurale in i (i sili); o altrettanto correttamente, ove se ne volesse rimarcare la natura di prestito, potrebbe conservare il plurale spagnolo (i silos).

Lo stesso vale per i prodotti della forma d’arte consacrata nel Messico degli anni Trenta del secolo scorso da maestri come Diego Rivera e José Orozco e ormai diffusa in tutto il mondo: tanto che ovunque si parla oggi di murales, ma in Italia se ne parla anche in presenza di uno solo. Il singolare di murales nella lingua spagnola è mural, che ha un preciso e quasi omofonico corrispettivo nell’italiano murale: perché non utilizzarlo al posto di murales, eventualmente riservando questa forma per il plurale, se non ci si sente ancora pronti per dire murali?

L’alternanza singolare italiano/plurale spagnolo potrebbe anche risolvere il problema di vigilantes, vocabolo che privato della s è nella nostra lingua un normale participio presente e si presta ottimamente all’uopo, ma nel plurale vigilanti sembra perdere un po’ della sua specifica pregnanza e autorizza il ricorso alla lingua d’origine. Mentre un po’ più complessa è la situazione della parola peones, che significa pedoni ma nell’accezione giornalistica invalsa in Italia si riferisce a quei politici di mezza tacca che in parlamento si limitano a fare numero. Numero plurale, appunto. Il singolare, in spagnolo, sarebbe peón, e siccome tradurlo con pedone farebbe pensare a un’altra cosa (al limite, al pezzo più umile ma spesso insidioso nel gioco degli scacchi), l’unica alternativa alla traduzione in italiano o al prestito dalla lingua straniera è l’adattamento morfologico peone, che al plurale darebbe un malcerto (e di fatto poco praticato) peoni: in questo caso è più sicuro recuperare il plurale spagnolo. Soluzioni empiriche, da adattare di volta in volta: i falsi pluralia tantum sono un terreno minato.

X