Da La Spezia con articoloLa gran confusione grammaticale sulle preposizioni

Dovremo dire «vado a L’Aquila» o «vado all’Aquila»? Una vera regola non esiste, ma sarebbe meglio seguire il buon gusto. Quanti con sprezzo del ridicolo scrivono “de Il Cairo”, lasciamoli tranquillamente al loro destino

Wikimedia Commons

Una pubblicità radiofonica d’inizio estate magnificava le meraviglie naturalistiche “di La Maddalena e dell’Asinara”. Letteralmente così: le due isole sarde congiunte nella stessa frase, al genitivo, una con la preposizione articolata, l’altra no. Viva il pluralismo!

L’uso delle preposizioni davanti ai nomi propri di cui fa parte integrante l’articolo determinativo è un problema sul quale i grammatici non riescono a mettersi d’accordo: vanno articolate o lasciate nella loro forma originale? Nessun dubbio nel caso dei cognomi: Lo Russo, La Capria ecc. saranno sempre preceduti dalla preposizione semplice. Ma nel caso dei toponimi? Si dovrà dire di (a, da, in, su; con le altre preposizioni la difficoltà non sussiste) La Spezia, L’Aquila, L’Aia, La Mecca, La Paz, L’Avana, oppure della (alla, dalla, nella, sulla) Spezia ecc.? 

La questione si pone soprattutto nella forma scritta, perché nel parlato, salvo eccezioni (e salvo copywriter afflitti dalla sindrome di Buridano), prevale largamente la preposizione articolata. Una notevole eccezione è rappresentata da La Spezia (preposizione semplice), che quasi tutti pronunciano come se il nome effettivo fosse Laspezia, sebbene gli spezzini (non laspezzini) omettano risolutamente l’articolo (non a caso assente anche nel nome della locale squadra di calcio che da un paio di anni milita valorosamente in Serie A). Meno notevole, in quanto meno presente nella bocca degli italiani, il caso di La Paz – anche perché cosa si capirebbe se si dicesse “della Paz”? – mentre sembra improbabile che qualcuno arrivi a parlare di L’Aia o di La Mecca.

Che il problema sia tutt’altro che risolto è emblematicamente attestato da una curiosa contraddizione che va sotto il prestigioso nome dell’incolpevole Aldo Gabrielli. L’edizione Hoepli 2013 (postuma) del suo Si dice o non si dice? Guida all’italiano parlato e scritto, curata e aggiornata dal nipote Paolo Pivetti, è perentoria: «dovremo dire “vado a La Spezia”, “vengo da L’Aquila”». Peccato che nel Dizionario linguistico moderno pubblicato la prima volta (da Mondadori) nel 1956 l’insigne linguista avesse sostenuto l’esatto contrario: «si consiglia di dir sempre: “Vado alla Spezia”, “La provincia dell’Aquila”». Una guerra (linguistica) in famiglia?

Queste stesse incertezze dicono che una vera regola non esiste, anche se fin dove non crea problemi sembrerebbe ragionevole – più naturale – preferire la preposizione articolata. È comunque, più che altro, questione di (buon) gusto personale. Variabile a seconda dei casi. Per esempio le oscillazioni tendono a scomparire quando il nome della città e di conseguenza l’articolo sono maschili: di (da, a ecc.) Il Cairo o Il Pireo proprio non si possono sentire. In verità tra le due opzioni, almeno quando sono citate al genitivo, tertium datur: è il deprimente de + l’articolo, sempre in agguato nella prosa imbalsamata di quanti con sprezzo del ridicolo scrivono (e nei casi più patologici dicono) “de Il Cairo”, “de La Spezia”. Lasciamoli tranquillamente al loro destino.

L’eventualità di scindere la preposizione articolata nei suoi due elementi costitutivi si ripresenta però, in altra situazione, quando si ha a che fare con i titoli, di libri ma non solo. Nel caso di titoli universalmente noti e di consolidata tradizione si può senz’altro rinunciare all’articolo: nessuno direbbe (ma qualcuno scrive) “de I Promessi sposi” o “de Il conte di Montecristo”. Ma quando si tratta di un titolo recente, o poco noto, o non immediatamente percepibile in quanto tale, come Il cuoco dell’Alcyon (ultimo Montalbano di Camilleri) o I miei stupidi intenti (il romanzo-rivelazione di Bernardo Zannoni vincitore del recente Campiello)? 

In questi casi la raccomandazione è di conservare la forma originale nella sua integralità, quindi evitando di articolare la preposizione e eventualmente, ove si tratti della preposizione di, turandosi le orecchie e ripescando il pedantesco tertium di cui sopra (ma tante volte può andar bene anche il semplice di). Un modo per aggirare l’ostacolo comunque c’è. Lo suggerisce Gabrielli, nel già citato Dizionario: si può scrivere (e dire), per esempio, “il poema Il giorno del Parini”, “il romanzo I promessi sposi”. Costringe a allungare un po’ la frase, ma ne vale la pena.

Se invece si opta per la via più breve, quella con il de, è bene usare moderazione e stare attenti. Perché, per esempio, quel mesto, polveroso (ma ricorrente) “de La Stampa” (o “ne La Stampa”), che nessuno pronuncerebbe così, mentre nella forma scritta – “della Stampa” (o “nella Stampa”), con la maiuscola dove ci vuole – non si darebbe possibilità di equivoco? Ci sono addirittura quelli che si fanno prendere la mano e scrivono “de Il Corriere della Sera”: introducendo l’articolo in una testata che notoriamente ne è priva. Con il Poeta, “non ragionam di lor”.

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