Ve lo ricordate il 2021? Era un periodo strano, in cui il business dei contenuti sembrava in grado di sostenere tutti, compresi i giornalisti, che accorrevano su piattaforme come Substack, inaugurando newsletter a pagamento. Ecco, non diremo che la pacchia sia finita, perché non lo è, ma l’attuale outlook dell’economia globale sembra aver colpito anche l’antico eldorado della creator economy. Insomma, questa è «la prima recessione» a colpire il settore, e potrebbe non essere pronto a sostenerla.
Secondo un sondaggio dell’Influencer Marketing Hub, infatti, il 77 per cento dei creator partecipanti ha come primaria fonte di sostentamento gli accordi pubblicitari con i brand, un dato notevole che rende la categoria particolarmente esposta ai cali degli investimenti digital delle aziende. Ma non è solo la contingenza a far sorgere dubbi sulla tenuta di questo comparto: sono le stesse piattaforme su cui il business si basa ad aver aggiustato e rivisto alcuni parametri importanti. Al ribasso, ovviamente.
Rimaniamo su Substack, prima di avventurarci tra i giganti. Si tratta di un servizio che permette di aprire newsletter facendosi pagare dai propri lettori, trovata che ha fatto il successo di alcuni prodotti, soprattutto di giornalisti statunitensi. Matthew Yglesias con “Slow Boring”, “Common Sense” di Bari Weiss e “Noahpinion” di Noah Smith sono tra gli esempi più citati – e con più paganti. Proprio per questo, fino all’anno scorso, Substack sembrava in grado di fare paura al New York Times, ma anche a Twitter, di cui condivide la passione per l’approfondimento politico-culturale.
Nel corso degli ultimi mesi, però, l’azienda ha avuto difficoltà a ottenere nuovi finanziamenti, tanto da rinunciarci, e ha tagliato il 14 per cento dei suoi dipendenti per prepararsi a un inverno che si preannuncia lungo.
Secondo il sito The Information, gli investimenti in startup dedicate ai creator sarebbero scesi del 53 per cento rispetto a un anno fa. Come ha scritto Vox, «il boom delle newsletter è finito», non perché come mezzo di comunicazione siano cadute in disuso (anzi, gli editori continuano a investirci molto) ma perché il miraggio di Substack come ennesimo «futuro del giornalismo» è ormai sfumato.
Persino Facebook ha chiuso Bulletin, il suo anti-Substack lanciato lo scorso anno con autori di punta come Malcolm Gladwell. Già all’epoca, a dire il vero, non furono in molti a puntare sul progetto, che sembrava uno dei tanti esperimenti di Meta.
Passando ai giganti, Twitch, una piattaforma per il live streaming di proprietà di Amazon, ha da poco annunciato una riforma del suo finora generoso piano di spartizione degli introiti con gli streamer. A partire dal prossimo giugno, il sito tratterrà la metà di tutti i guadagni superiori ai centomila dollari, e non più il 30 per cento.
Lo stesso giorno in cui Twitch ha comunicato la novità, Constance Knight, Senior Vice President of Global Creators, ovvero la diretta responsabile dei rapporti con i creator, si è dimessa dalla società. Coincidenze, o la svolta è stata troppo per Knight, che ha preferito lasciare quella che fino a pochi giorni fa era la piattaforma più consumer friendly?
Negli ultimi due anni il panorama del settore è stato stravolto soprattutto dall’ascesa di TikTok, che ha costretto YouTube e Instagram a modificare profondamente le proprie app, introducendo servizi simil-TikTok come Shorts e i Reels. La monetizzazione dei contenuti rimane però un grattacapo per il social network di ByteDance, che garantisce grande viralità ma pochi introiti.
La maggior parte dei creator sa che se c’è una piattaforma che ha di fatto inventato il business è proprio YouTube, che ha iniziato nel 2007 a dividere le entrate pubblicitarie dei video con i loro autori (con restrizioni e molti casi di demonetizzazione, ovviamente, specie negli ultimi anni, ma questo meriterebbe un articolo a parte).
Nel 2020 TikTok ha avviato un fondo simile per creator statunitensi da duecento milioni di dollari, minacciando il feudo di YouTube stessa. Che ha reagito aprendo agli Shorts le porte dello YouTube Partner Program, portando nel formato un approccio del tutto diverso da quello di TikTok: non più un budget, per quanto grande, da dividere tra i principali creatori, ma un accordo chiaro di suddivisione delle entrate. Senza limiti di sorta.
La recessione del content potrebbe essere questo, dopotutto: un momento di stabilizzazione dopo l’eccezionalità della pandemia e il trionfo di TikTok. Lo stesso sembra avvenire anche nel settore dei podcast: a inizio anno un commento pubblicato da Bloomberg aveva fatto notare ai più che è ormai anni che il settore dei podcast non produce una hit à la Serial.
Certo, il caso italiano è diverso, perché l’avvento di Spotify nel campo ha reso facile l’accesso a questi prodotti a molte persone, ma il vento che ha portato all’accordo di esclusiva da cento milioni di dollari di Joe Rogan con Spotify sembra essere calato. Oggi i podcast procedono senza trionfi e con regolarità: «sono semplicemente diventati la radio», ha notato l’esperto Nicholas Quah.
Negli ultimi giorni, infine, l’associazione World Federation of Advertisers (Wfa) ha pubblicato i risultati di uno studio secondo cui il 29 per cento dei maggiori inserzionisti pubblicitari al mondo si dice pronta a ridurre gli investimenti nel prossimo anno. Insomma, «winter is coming», e per la prima volta colpirà anche i creator. Sarà interessante vedere come uscirà l’industria dalla sua prima recessione.