Il debito è una delle questioni più sottovalutate quando si parla di giustizia climatica. Per i Paesi del sud del mondo il riscaldamento globale si sta trasformando in una sorta di tenaglia finanziaria, nella quale gli interessi da ripagare amplificano i disastri causati dall’aumento delle temperature globali, che ormai è a 1.2°C, a 0.3°C dal limite sostenibile di 1.5° C (la soglia più ottimistica dell’accordo di Parigi del 2015, che mette come limite massimo, da non superare a ogni costo, i 2°C).
Da un lato di questa tenaglia ci sono i danni della crisi climatica, causati dagli eventi estremi ed enfatizzati dalle dinamiche cicliche del meteo, come la lunghissima fase di La Niña nella quale ci troviamo, che porta un prolungamento dei periodi di siccità come quello che sta affamando l’Africa orientale. Entro il 2030, riparare il mondo che viene rotto dall’emergenza climatica arriverà a costare tra i 290 e i 580 miliardi di dollari l’anno. Dall’altro lato della tenaglia c’è l’obbligo di ripagare i debiti finanziari contratti in passato, soprattutto nei confronti di organismi come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Si tratta di una forbice tra necessità di sopravvivere, risorse per poter immaginare di farlo e debito che, nel frattempo, si accumula si allarga sempre di più, perché la crisi climatica ha intensificato i suoi effetti negli ultimi anni. È l’elemento impazzito nel fragile equilibrio del debito che regge la finanza mondiale. L’ultima stagione monsonica in Pakistan non solo ha fatto 1.300 vittime e allagato un terzo del Paese, ma avrà un conteggio finale di danni che supererà i dieci miliardi di dollari.
Per le Nazioni africane o i piccoli stati insulari del Pacifico e dei Caraibi affrontare i danni del clima mentre si trovano soffocati dal debito vuol dire dover sottrarre risorse all’adattamento, diventare più vulnerabili ed esposti e alla fine dover chiedere sempre più soldi in prestito per rimanere a galla, ricostruire le infrastrutture, riparare le case, seppellire i morti e andare avanti.
Secondo i dati della Banca Mondiale, il cinquantotto per cento dei Paesi più poveri è in una condizione di stress debitorio, e una delle cause sono proprio i danni costanti di allagamenti, alluvioni, uragani e cicloni. Quando il ciclone Harold devastò Vanuatu due anni fa, i danni furono superiori a cinquecento milioni di dollari. Gli aiuti internazionali per tutto lo sviluppo dell’isola furono inferiori a cento milioni di dollari. Questa forbice prende sempre più le forme di una voragine.
Il circolo vizioso di debito e clima sta diventando sempre più insostenibile per i Paesi dove risiedono quei tre miliardi di esseri umani che, secondo l’ultimo rapporto Onu-Ipcc, sono in immediato pericolo per il riscaldamento globale. È per questo motivo che i ministri delle finanze del V20, la coalizione dei Paesi più poveri e climaticamente vulnerabili al mondo, ha fatto sapere a margine dell’ultimo incontro di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale di essere pronta a smettere unilateralmente di ripagare i propri debiti nei confronti dei mercati internazionali.
L’obiettivo? Destinare quelle risorse all’adattamento del proprio territorio, perché la scelta tra annegare e sopravvivere risiede anche in quelle risorse bloccate dal ciclo del debito. E si tratta di una cifra pari a 685 miliardi di dollari, il “Numero verde” chiave di questa rubrica su Greenkiesta. Probabilmente è anche una mossa tattica, parte di una trattativa più ampia che porta dritta al negoziato Onu Cop27 che si terrà in Egitto a dal 6 al 18 novembre, dove la questione delle riparazioni climatiche sarà il tema centrale, quello che rischia di spaccare tutta la transizione ecologica globale.
La richiesta sempre più consolidata da parte delle varie coalizioni tra Paesi vulnerabili (spesso coordinate e talvolta strumentalizzate da Cina e India) è in quella formula diplomatica che sta diventando sempre più centrale nel negoziato Onu sul clima: loss and damage. I danni e le perdite. Si tratta di 134 Paesi che ricevono (pochi, e spesso in ritardo) fondi per fare la propria transizione ecologica e abbandonare fonti nocive per il clima come il carbone. È la parte della mitigazione: evitare che la crisi peggiori.
Il problema è che la crisi è un problema presente, non futuro, la prevenzione e la cura devono procedere di pari passo, perché «i danni e le perdite» sono già declinabili al presente. L’accusa di coalizioni come V20 è che i grandi emettitori storici, come Stati Uniti e Unione europea, non vogliano prendersi la propria responsabilità, quella di aver emesso oltre il novanta per cento dei gas serra attualmente in atmosfera. È un danno, e quel danno lo hanno fatto loro. Un danno che va ripagato. La questione dei risarcimenti climatici è tutta qui: la richiesta di metà dell’umanità di rimediare ai guasti di un clima già rotto.
Gli strumenti di aiuto attualmente esistenti non sono considerati all’altezza della sfida: la provocatoria proposta di smettere di ripagare il debito è stata suggerita a margine di una riunione di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale proprio perché questi organismi sono ormai considerati inadatti a veicolare i flussi finanziari necessari a reggere il peso della crisi climatica. Rispetto alla richiesta tardo novecentesca di cancellare il debito, qui c’è anche una sfumatura morale, oltre che politica: la richiesta di riparare a un danno fatto.
«Non viviamo solo di soldi presi in prestito, oggi viviamo anche di tempo preso in prestito», ha dichiarato Mohamed Nasheed, l’ex presidente delle Maldive, da tempo uno dei portavoce del sud globale in questa battaglia. L’alleanza dei piccoli Paesi insulari presenterà a Cop27 la proposta di istituire un fondo chiamato “Loss and damage response fund”, uno strumento concreto che li aiuti a ricostruirsi dopo eventi come il ciclone Harold. Sarà uno dei temi climatici, forse il fondamentale, delle prossime settimane.