In uno degli incipit più famosi della storia della letteratura, Vladimir Nabokov fa soffermare il suo protagonista sulla pronuncia delle sillabe che compongono il nome della sua ossessione sessuale, Lolita: le prime due con la lingua che batte sul palato, e la terza sui denti.
È con la stessa voluttà, ma purtroppo con nessuna lingua che batta dove la B duole, che Corrado Formigli pronuncia Benito, le tre sillabe che compongono il terzo (forse) nome del presidente del Senato. Sette volte, in apertura di puntata. Fa un monologhetto che dovrebbe dirci quanto impresentabile sia La Russa, e in realtà ci dice: che in gioventù un Formigli nel ruolo di protoGabibbo andò a rompere i coglioni a La Russa che giustamente lo liquidò (temo che Formigli sia convinto che, da quel filmato, a non uscire bene sia La Russa); che il fratello di La Russa (di cui ignoriamo secondo e terzo nome) fa il saluto romano (spero che Formigli sia figlio unico); che i genitori di La Russa gli hanno dato come terzo nome Benito (sette volte, ce lo rimarca).
Di La Russa in sé, pochino, giusto le piccole cose di pessimo gusto fascista con cui arreda casa. Anzi, fra il sesto e il settimo «Ignazio Maria Benito» Formigli dice anche «magari sarà anche una buona carica dello Stato, non ho grandi motivi per dubitarne». Ah, quindi è come quelli che leggono i titoli degli articoli e poi commentano sui social «d’altra parte cosa vuoi aspettarti, da una che si chiama Guia». Colpevoli per battesimo, chi me lo doveva dire che avevo qualcosa in comune con La Russa.
Al decimo minuto, Formigli presenta (come «grande editorialista principe», qualunque cosa questo trittico di parole significhi) Ezio Mauro, e la domanda che gli fa, ovviamente su La Russa, gliela fa senza dire «Ignazio Maria Benito»: era affaticato dal dover ripetere secondo e terzo nome? Si è reso conto della ridicolaggine e, inibito dalla seriosità di Mauro, si è vergognato? Non lo saprò mai, perché a quel punto ho spento, stremata dai secondi e terzi nomi, dall’incapacità degli adulti di criticare le persone per ciò che dicono e fanno e non per quel che hanno fatto o detto i loro parenti, dagli anelli d’argento del conduttore.
Però ieri mattina ho aperto Repubblica, e le prime parole dell’articolo di Stefano Cappellini erano «Ignazio Benito Maria» (secondo e terzo nome si erano invertiti nella notte? Si era sbagliato Formigli? Si era sbagliato Cappellini? Non lo saprò mai – non verificano l’anagrafe i protoGabibbi, mica pretenderete la verifichi io che non ho mai dato una notizia in vita mia – ma punto un soldino su un errore di Formigli: l’altro giorno Ceccarelli aveva scritto di La Russa «di secondo nome fa pur sempre Benito», e tendo a fidarmi più di Ceccarelli che dei conduttori con uso di bigiotteria).
Cappellini, diversamente da Formigli, non ripete per tutto l’articolo i tre nomi, dopo quello che gli sarà sembrato un eloquente incipit si limita a chiamarlo «La Russa»: sarà perché è meno nabokoviano di Formigli, o perché una pagina di giornale contiene un numero limitato di caratteri tipografici e il povero editorialista cartaceo non può permettersi le voluttà di quello televisivo?
Scriveva ieri Francesco Cundari che sarebbe saggio concentrarsi su cosa l’imminente governo pensi di quel che è successo a Washington due anni fa, più che su cosa pensi di quel che è accaduto in Italia cent’anni fa (ignorare il presente e occuparsi di cent’anni fa è utilissimo per vendere libri, questo va riconosciuto: ogni volta che Formigli batteva la lingua sui denti dicendo «Benito» pensavo a quell’articolo d’un paio di settimane fa in cui Ernesto Galli della Loggia dava ai bestselleristi che scrivono di fascismo oggi degli orecchianti della storia, il che ha fatto sussultare i lettori, considerato che quei bestselleristi scrivono per il suo stesso giornale, e avrà fatto piangere i bestselleristi, che si saranno asciugati le lacrime con banconote da cinquecento euro).
È interessante anche notare come funzioni la memoria: ci interessa solo il passato ma ne ricordiamo parti scelte. Ci ricordiamo che «Benito» è un nome brutto e cattivo e che il fascismo ci fa schifo, e troviamo quindi scandaloso che una carica dello Stato vada a uno che è fascista (che lo è stato? «Fascista» è per sempre, come i grandi amori?); ma nel farlo dimentichiamo che Gianfranco Fini è stato presidente della Camera (e c’erano pure già i social, quando lo diventò: non avevano ancora imparato a creare scandali da tre quarti d’ora, o ce ne siamo dimenticati giacché appunto le indignazioni di questo secolo durano tre quarti d’ora?).
Nel frattempo, ieri i siti dei giornali pubblicavano gli appunti di Berlusconi sul comportamento di Giorgia Meloni. Silvio, come me, ha bisogno d’annotarsi perché non può soffrire le persone che non può soffrire, sennò mica se ne ricorda. Nella lista c’erano (non sapremo mai se in ordine d’importanza o di smemoratezza) «supponente, prepotente, arrogante, offensivo». Non c’era «fascista», essendo Silvio Berlusconi ormai l’ultimo baluardo del reale e del razionale, consapevole che ci sono sufficienti ragioni per criticare le persone al presente senza bisogno di scomodare le ideologie dei loro nonni.