Oggi finalmente si tiene un sit-in sotto l’ambasciata russa a Roma. Sappiamo che Marco Bentivogli, animatore dell’iniziativa (indetta dall’associazione LiberiOltre, Mean, Base Italia, Giovani per l’Ucraina e personalità come Sandro Veronesi, Leonardo Becchetti, Luigi Manconi), ha dovuto faticare non poco per dare una sveglia a un Partito democratico che sulla questione della guerra di Putin ha tenuto sin qui una linea ammirevolmente coerente ma che dopo la botta del 25 settembre ha dato l’idea di una evidente incertezza («La fase è cambiata», una di quelle frasi che di solito non promettono nulla di buono).
Nelle ultime ore, uno stanchissimo Enrico Letta e Lorenzo Guerini hanno recuperato: pace vuol dire innanzitutto ritiro dei russi dall’Ucraina, quell’Ucraina che bisogna continuare a sostenere anche con le armi. Non mancano tuttavia distinguo e perplessità nella sinistra interna e nei cattolici da Gianni Cuperlo a Graziano Delrio, ma nella sostanza il Pd tiene.
Letta per non scontentare nessuno è comunque su questa strana idea di andare ovunque si manifesti “per la pace”, come se i contenuti delle diverse manifestazioni fossero intercambiabili, ed è la solita doppiezza della vecchia politica.
Ma la questione più interessante, e drammatica, è tuttavia un’altra. Le attuali convulsioni della sinistra sul tema della guerra dimostrano che il famoso “campo largo” non esiste, non esisteva e non esisterà. Adesso ci rendiamo conto che per mesi, e soprattutto nella fase cruciale prima della campagna elettorale, si è discusso a lungo di una cosa che alla luce del dibattito sulla guerra di Putin appare lunare: la fantomatica unità di uno schieramento “largo” di centrosinistra, in realtà frastagliato sulla cosa da sempre più importante di tutte, appunto il tema della guerra e della pace.
Un tema che nella storia ha diviso il movimento socialista, il mondo democratico, gli intellettuali di mezzo mondo, le generazioni, proprio per il suo carattere moralmente e politicamente decisivo. Su queste cose non si scherza. E non si possono escogitare mediazioni come se si trattasse di una vertenza sindacale o di un accordo in un consiglio comunale. Qui si parla del mondo, della vita, della libertà. Di quali regole dovranno governare il pianeta oggi e nel futuro. La guerra a Kyjiv, lo hanno detto e scritto in tanti, è uno spartiacque come Monaco nel ‘38, molto più che della Baia dei Porci o dell’Iraq. Qui la libertà, là la dittatura. E se non si è d’accordo su queste cose, stop, fine.
Campo largo? Ma basta vedere come la sinistra si comporterà nelle piazze nei prossimi giorni per capire che si sta parlando del nulla. Oggi al sit-in sotto l’ambasciata russa vanno Letta, +Europa, il Terzo polo, ma non Giuseppe Conte.
Il leader grillino ha in programma un’altra manifestazione a novembre (soi disant “senza bandiere” ma lui già ha piantato la sua), e nello stesso giorno Carlo Calenda ne organizzerà un’altra a Milano. Il primo è contro l’invio delle armi a Kyjiv, il secondo è favorevole. Il Pd versione Guerini anche è favorevole, ma il Pd versione Cuperlo-Boldrini mica tanto, e infatti questi andranno anche alla manifestazione di Conte.
Poi ci sono le associazioni di estrema sinistra che scenderanno in piazza il 5 novembre, esse sono radicalmente contrarie non solo all’invio di armi ma anche al ruolo degli Usa, alla linea di Zelensky e alle conseguenze della guerra foriera di disoccupazione, crisi, emarginazione.
Una linea non troppo lontana a quella della Cgil di Maurizio Landini che piace ai rossoverdi di Nicola Fratoianni e ai reduci dell’esperienza di Sel (Loredana De Petris, suo cognato Paolo Cento, Stefano Fassina, è tornato in campo anche Alfonso Pecoraro Scanio) che stanno ormai con Conte. Dulcis in fundo, il 28 ottobre a Napoli il vulcanico Vincenzo De Luca organizzerà la piazza sulla linea di Conte e Landini.
Si perdoni la confusione che non è di chi scrive ma il frutto della Babele del presunto “campo largo”, un sovrapporsi pazzotico di lingue e personalismi nel tentativo di meglio posizionarsi dopo le ferite del 25 settembre – del Pd ma anche di un Conte che punta a rifarsi una verginità a sinistra – mentre il radicalismo travestito da pacifismo, sparito, non vede l’ora di “riprendersi la piazza” che è uno dei suoi sport preferiti.
Come si sia potuto pensare di mettere nello stesso cartello elettorale, non parliamo neppure di alleanza politica, Pecoraro Scanio e Carlo Calenda, Lorenzo Guerini e Giuseppe Conte, Piero Fassino e Stefano Fassina, se ormai fatica a stare insieme (ripetiamo: sulla guerra!) persino gente che sta nello stesso partito come Matteo Orfini e Peppe Provenzano? Se questa è la domanda, con un occhio al futuro, parrebbe da escludere una ricomposizione di tutte queste “anime”, sarà un problema persino dal punto di vista parlamentare: e dunque non sarebbe ora, per usare la metafora di Bersani, di “tirare una riga” e di andare avanti ognuno per conto proprio?
Saranno poi i fatti a decretare chi avrà avuto più filo da tessere e ci sarebbe risparmiata la retorica sull’unità della sinistra che alla luce della guerra ormai è un feticcio, uno slogan che la Storia sta seppellendo con la forza della sua tragicità. Perché sotto le macerie reali di Kyjiv e Zaporizhia stanno le macerie politiche di una coalizione mai nata, il resto è silenzio.