Solidarietà stentataL’ambiguità storica della sinistra rispetto all’Islam politico e lo scarso sostegno alle proteste in Iran

In Italia e in Europa le manifestazioni che avrebbero dovuto sostenere le battaglie delle donne persiane sono state molto fiacche

AP/Lapresse

Molto impegnate a combattere per introdurre lo schwa e le quote rosa, le donne dei movimenti, e i progressisti, in Italia, come in Europa e negli Stati Uniti, pare proprio che oggi poco si commuovano a fronte del più vasto e radicale movimento di lotta femminile che si sia mai visto da decenni.

Un movimento che da due settimane sconvolge tutte le piazze dell’Iran al grido «Donna-Vita-Libertà!» e che paga il terribile prezzo di sangue di 130 morti – secondo alcune fonti 150 – di centinaia e centinaia di feriti e di migliaia di arresti.

Ero sconfortato nei giorni scorsi nel vedere finalmente sfilare per le strade di Roma un corteo di un migliaio di manifestanti di solidarietà con il movimento iraniano: molti iraniani, molti studenti dei collettivi universitari, nerbo dell’organizzazione della manifestazione ma solo – e gli va dato pieno merito – il collettivo femminista “Non una di meno”.

Non ho visto la mobilitazione di una sigla sindacale, non di un partito di sinistra e assente – tranne la piccola eccezione detta – il grande movimento delle donne.

Simili, mi dicono, le manifestazioni di Milano, Bologna e Napoli. Solo Giovanna Melandri, direttrice del Maxxi e la Triennale di Milano hanno lanciato l’iniziativa di un taglio solidale di capelli da inviare polemicamente all’ambasciatore iraniano a Roma. Un inizio di mobilitazione dunque, segno che qualcosa si muove, ma troppo poco.

A fronte di questa stentata solidarietà dei movimenti in Italia viene il dubbio che abbia ragione Philippe Bernard, editorialista di Le Monde che ha rilevato che la questione del velo «frattura» la sinistra e i movimenti, li imbarazza. Per questione del velo, naturalmente, si intende la parte per il tutto e quindi il rapporto della sinistra e dei progressisti con l’Islam, non certo quello della fede, ma il concreto Islam politico.

Abituati a vedere “il male” come colpa del solo Occidente, affascinati dagli islamisti che propongono il velo come veicolo identitario contro i non-valori occidentali, progressisti e progressiste faticano a mettere a fuoco un dato di fatto indiscutibile: il velo, il hijab, è il fondamento identitario assoluto e imprescindibile di una società patriarcale e quindi non libera. Tesi ferrea, non a caso, dell’ayatollah Khomeini che lo volle imporre per legge alle donne nel 1979, come pilastro base indispensabile per la sua autocratica, teocratica e autoritaria Repubblica Islamica.

Sia chiaro, sappiamo bene che, come ricordava l’ideologo terzomondista Frantz Fanon, negli anni Cinquanta del secolo scorso le donne nelle strade e nelle manifestazioni in Algeria sceglievano liberamente di imporsi il velo per segnare la loro volontà di lottare contro il colonialismo francese.

Ho visto peraltro con i miei occhi nel 1978, negli immensi cortei nelle strade di Teheran, centinaia di hostess della Iran Air, donne libere, emancipate, in minigonna, sfilare per abbattere il regime dello Scià, portando a mo di bandiera i chador, anche se molto svolazzanti e che ben poco nascondevano del corpo.

Dunque è vero che, il velo, l’hijab, persino il chador, sono stati usati, in alcune, precise circostanze di rottura, come vessilli di lotta contro l’oppressore. Nulla da dire, peraltro, nei confronti delle donne che in Europa, scelgono liberamente di indossare un hijiab per marcare la propria scelta religiosa.

Ma il punto cruciale, il tema dirimente, sta tutto nel termine “liberamente”.

Questa libertà è tale solo e unicamente in Occidente, nelle democrazie. Nei Paesi islamici – a eccezione del Marocco – invece il velo è simbolo di costrizione maschile e/o statale e soprattutto di una condizione di libertà dimidiata della donna. Libertà dimidiata, peraltro, auspicata in Occidente da tutte le organizzazioni islamiste che ne fanno una bandiera.

Esattamente come si distingueva il “socialismo reale”, quello realizzato, plumbeo e dittatoriale dei regimi sovietici e comunisti, dall’afflato utopico del comunismo di Karl Marx, dobbiamo oggi distinguere l’Islam di fede del Corano – nel quale peraltro Maometto mai impose il velo né l’hijab, né il chador – dall’Islam reale, che si è concretizzato storicamente in tutti i Paesi islamici.

Si pensi che ovunque, e persino nel liberale Marocco, una donna musulmana non può per legge sposare un cristiano o un ebreo. Un uomo invece può sposare una cristiana o un ebrea. La ragione è nello status di eterna minorenne a cui è inchiodata la donna dalla sharia, sì che può e deve subire l’autorità dell’uomo e quindi convertirsi commettendo così il più grande peccato per l’Islam, più grave ancora dell’omicidio, l’apostasia.

«Uomo e donna sono uguali, ma l’uomo è superiore»: questo è scritto a chiare lettere nel Commento al Corano più diffuso in Itala a cura dell’Ucoii.

Ucoii che incredibilmente molto favore riscontra tra la sinistra e tanti progressisti in Italia, tanto che molti sindaci di sinistra, tra questi Dario Nardella, si mobilitano per favorire la costruzione di sue moschee.

Torniamo dunque alla tesi di Philippe Bernard di Le Monde e verifichiamo nei fatti che la questione del velo frattura la sinistra e i progressisti che, memori di un non lontano passato terzomondista e di ben scarso amore per i valori di un Occidente a cui si addebitano tutti i mali, mandano al macero tutti i criteri femministi che applicano alla nostra società.

È questa una radicata tradizione segnata dalle radici inesauste dell’impegno antimperialista che vede in Israele appunto, la longa manus dell’imperialismo, e nei palestinesi gli ammirati campioni dei popoli oppressi, anche quelli di Hamas che hanno l’obbiettivo di eliminare Israele dalla faccia della terra.

Una vicenda che inizia con la geniale e cinica svolta del 1956 che vide l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov promuovere tutte le leadership arabe che erano attivamente state filo naziste durante la Seconda guerra mondiale, Nasser in testa, e poi Saddam Hussein e il Baath degli Assad, a campioni della lotta progressista e antimperialista. E poi, nel 1967 a paragonare i palestinesi e gli arabi che mossero guerra a Israele per spazzarla dalla faccia della terra degli emuli della lotta del glorioso popolo vietnamita.

Una tradizione spessa, anche sul piano culturale, che vide nel 1977 la progressista Einaudi pubblicare in Italia “Islam e capitalismo” di Maxime Rodinson che accreditava nella ossessione antisemita dei movimenti e dei Paesi arabi che volevano distruggere Israele, e nell’Islam politico, una sorta di traduzione del marxismo negli stilemi della cultura araba. Rodinson addirittura leggeva nella sharia spunti di egualitarismo para socialista. Massimo D’Alema, per dirne una, da quella cultura è plasmato.

Dunque, una lunga, ambigua ed errata storia di contiguità tra sinistra e Islam politico che spiega molto, tanto che da anni l’Anpi di Roma impedisce alla Comunità Ebraica di aderire e partecipare alla manifestazione del 25 aprile perché preferisce marciare a fianco dei palestinesi, anche sodali degli islamisti di Hamas, che vogliono la distruzione di Israele.

E intanto le donne iraniane e gli uomini solidali con loro sono soli a marciare nelle strade nello scarso, insufficiente, interesse solidale dell’Occidente.

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