#StrajkKobietLa battaglia delle donne polacche contro le restrizioni al diritto di abortire

La rinascita del movimento riguarda non solo l’Europa, ma tutte le zone del mondo dove forze politiche oscurantiste, come avvenuto nell’America trumpiana, criminalizzano la libertà femminile

lapresse

La Polonia fu tra i primissimi paesi al mondo a regolamentare l’aborto per legge: era il 1932 e si acconsentì all’aborto in caso di stupro, incesto o se la salute della madre fosse risultata in pericolo. Prima della Polonia era intervenuta in materia soltanto l’Unione Sovietica, nel 1919; subito dopo, invece, toccò a Islanda (1935) e Svezia (1938). Si decise di adottare una legge specifica poiché, già all’epoca, le polemiche sull’argomento si susseguivano, al punto che lo scrittore Tadeusz Boy-Żeleński, esponente di rilievo del movimento della cosiddetta Giovane Polonia, dedicò alla condizione delle donne di fronte all’aborto la propria opera Piekło kobiet (L’inferno delle donne, 1929).

Piekło kobiet è una raccolta di scritti in cui l’autore denuncia l’inferno che le donne erano costrette a vivere: «Ed ecco la cosa peggiore! La legge è impotente: non può impedire alcunché, ma con la sua sola esistenza fa molto male, esercita un’influenza. Perché, stigmatizzando l’aborto come un crimine, lo vieta ai medici che tengono conto del codice, ma non impedisce ai vari farabutti di praticarlo, e nemmeno alle madri che si convincano a sperimentare misure “casalinghe” su se stesse. Il medico curante non interromperà la gravidanza (salvo indicazioni strettamente mediche), né in ospedale né presso la cassa dei malati. Così, mentre in questo caso i ricchi troveranno assistenza medica, i poveri ne resteranno privati».

Come a saldare il legame di una lotta che ormai continua da un secolo, o poco meno, uno degli striscioni ad aprire le manifestazioni polacche di questi giorni recita proprio: Piekło kobiet, talvolta liberamente esteso a: “Piekło kobiet trwa” (L’inferno delle donne prosegue). Il richiamo all’opera di Boy-Żeleński evidenzia subito una delle caratteristiche specifiche di questa piazza, ovvero la rilevanza che l’arte e la letteratura assumono nel tentativo di veicolare i propri messaggi. Per la prima volta le donne polacche ottengono un accesso illimitato all’aborto tra il 1943 e il 1945.

Dopo la guerra vengono inizialmente ripristinate le regole del ventennio interbellico; quindi, nel 1956, anche in Polonia, così come in vari paesi legati all’Unione Sovietica, quali Bulgaria, Romania e Ungheria, la legge sull’aborto viene ulteriormente estesa, rendendo la pratica sempre consentita. Il che si traduce, negli anni Ottanta, in un numero molto elevato di aborti effettuati, tra 150 000-200 000 interruzioni di gravidanza ogni anno.

La legge attuale, intorno alla quale si discute e si combatte quotidianamente, rappresenta invece un’ulteriore limitazione a quella approvata nel 1993, frutto di un compromesso tra Stato e Chiesa intervenuto poco dopo la caduta del Muro, che però finì per scontentare entrambe le parti. La legge del 1993, con cui sostanzialmente si tornava indietro di sessant’anni, acconsentiva all’interruzione di gravidanza in caso di stupro o incesto, quando la sopravvivenza della madre fosse stata in pericolo, in presenza di malformazioni gravi del feto o sindromi letali per la vita del bambino.

Il ritorno al governo del partito conservatore Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e Giustizia) nel 2015, dopo due legislature appannaggio di Platforma Obywatelska (Piattaforma civica), pone ben presto la questione di un ulteriore restringimento alle possibilità di ricorrere all’aborto. Già nella primavera del 2016 tra le attiviste inizia a serpeggiare una certa inquietudine, al punto che per fine giugno viene indetta una marcia a Varsavia: le partecipanti portano con sé delle rose rosse. «Fino all’ultimo momento eravamo solo un piccolo gruppo, ma esattamente all’ora zero dalla metro iniziarono ad arrivare fiumi di persone. A quell’epoca era la prima marcia organizzata spontaneamente dalle donne. Non sapevamo ancora cosa ci attendeva; ma sapevamo che, dopo le vacanze, la situazione sarebbe potuta peggiorare», ricorda Klementya Suchanow, una delle leader del movimento proabortista che andava formandosi, nel suo libro To jest Wojna (Questa è guerra).

Nel luglio 2016 il comitato Stop aborcji (Stop all’aborto) deposita in Parlamento una proposta di legge popolare che richiede il divieto totale dell’interruzione di gravidanza, con l’aggiunta di sanzioni penali tanto per le donne che ne fanno richiesta quanto per i medici che lo eseguono.

A tale proposta risponde, un mese dopo, quella del comitato Ratujmy kobiety (Salviamo le donne), che punta invece a una liberalizzazione totale dell’aborto. Il 23 settembre 2016 il Parlamento decide di mandare avanti i lavori sulla proposta di Stop aborcji, rigettando quella di Ratujmy kobiety, il che fa scattare nei giorni immediatamente successivi la reazione di Czarny protest (Protesta nera), dal colore che va per la maggiore tra indumenti e ombrelli. Il 3 ottobre questo movimento, che assume nel frangente il nome di Ogólnopolski Strajk Kobiet (Sciopero generale polacco delle donne, d’ora in poi anche OSK), nel corso del cosiddetto Czarny poniedziałek (Lunedì nero) porta nelle piazze di 147 città polacche, e di molte altre fuori dai confini, tra 100 000-200 000 persone.

Tre giorni dopo il Parlamento rinuncia ufficialmente al disegno di legge. Nel testo di Klementyna Suchanow si citano i seguenti dati: «La manifestazione delle donne che hanno smesso di avere paura spaventa il governo. Alcuni studi sociologici, esaminando il livello di adesione allo sciopero quel giorno (3 ottobre 2016, N. d. R.), dimostrano che una metà degli intervistati non si è recata al lavoro (51%); tra loro, la percentuale di professori e studenti sale fino al 64%. Secondo la Cbos (Centro di ricerca dell’opinione pubblica) un sesto delle donne polacche si è vestito di nero: questo gesto si è diffuso soprattutto tra le più giovani, 18-24 anni. In generale, la protesta è stata sostenuta dal 58 per cento di polacche e polacchi».

La contesa intorno alla legge sull’aborto riprende prestissimo. Un anno dopo le grandi manifestazioni dell’autunno 2016, Ratujmy kobiety presenta una nuova proposta con le istanze precedenti e un progetto di educazione sessuale nelle scuole: è il 23 ottobre 2017. Una settimana dopo, il comitato Zatrzymaj aborcję (Ferma l’aborto) risponde chiedendo la messa fuori legge dell’aborto per gravi malformazioni del feto: è la base della proposta su cui si esprimerà tre anni dopo il Tribunale costituzionale. Il 10 gennaio 2018 il Parlamento decide di rigettare nuovamente le richieste di Ratujmy kobiety e di portare in commissione, invece, quelle di Zatrzymaj aborcję, palesando così la precisa volontà di riprendere il discorso interrotto nel 2016.

Il 19 marzo dello stesso anno viene votata la prosecuzione dei lavori, che porta in piazza a stretto giro 100 000 persone circa. Con le nuove elezioni parlamentari, che nell’ottobre 2019 riconfermano il PiS e la sua maggioranza alla guida del paese, si assiste a una nuova accelerazione in favore delle proposte di una restrizione alla legge in vigore. Alla fine del 2019 un gruppo costituito da 119 parlamentari, principalmente del PiS, chiede al Tribunale costituzionale di esprimersi sul conflitto tra aborto e Costituzione, che garantisce il diritto alla vita.

Qualche mese dopo, siamo nell’aprile 2020, già in piena pandemia da Covid-19, la proposta di Zatrzymaj aborcję torna in Parlamento; mentre il 22 ottobre il Tribunale si esprime sull’interpellanza precedentemente sollecitatagli, dichiarando incostituzionale la legge sull’aborto nella parte che riguarda i casi di grave malformazione del feto, o sindromi gravi che minaccino la vita del nascituro. La sera stessa iniziano poderose proteste di massa, che nel giro di una settimana portano in piazza 600 000 persone almeno: solo il 30 ottobre, durante una grande manifestazione a Varsavia, si radunano più di 100 000 persone. Si tratta, con ogni probabilità, della protesta più grande dai tempi di Solidarność.

Le manifestazioni di dissenso rispetto alla pronuncia del Tribunale costituzionale si

succedono, fiaccate a malapena dalle restrizioni per la pandemia, dalla repressione crescente delle forze dell’ordine e dal freddo rigidissimo. Per alcuni mesi quanto espresso dal Tribunale costituzionale non viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e la decisione, dunque, non assume carattere di legge.

La pubblicazione viene a cadere il 27 gennaio 2021, data dopo la quale le proteste ripartono. Nel periodo successivo, assieme a un riaffacciarsi (per quanto più timido) delle manifestazioni proabortiste, in seguito a un’iniziativa di Pro-right to life Foundation si ventila nuovamente l’ipotesi di un divieto totale dell’interruzione di gravidanza, con pene fino a 25 anni di reclusione per i medici che fossero riconosciuti colpevoli di averla praticata.

La proposta viene respinta dal Parlamento il 1° dicembre 2021 con 361 voti negativi, 48 favorevoli e 12 astensioni. In realtà, a prescindere da quest’ultima proposta, la questione dei medici perseguibili penalmente nel merito è attuale già adesso. Il loro timore di fronte alle conseguenze della nuova legge viene indicato come causa principale della morte di Izabela di Pszczyna (il cognome non viene reso noto per motivi di privacy), colei che è considerata la prima vittima del nuovo ordinamento in materia. Per quanto la trentenne fosse già fortemente debilitata dalla totale mancanza di liquido amniotico, e le venissero confermati difetti congeniti precedentemente solo presunti, anziché svuotare la cavità uterina si attende la morte del feto: tale ritardo le risulta fatale e il 22 settembre 2021 Izabela scompare.

Da un lato i medici ignorano la minaccia per la salute del paziente e, dall’altro, temono le conseguenze legate al compimento di un aborto illegale. Se l’aborto giunge troppo presto, infatti, e poi il pubblico ministero dimostra che non ci fosse alcuna minaccia reale, rischiano una reclusione fino a tre anni. Prima della modifica alla legge, i medici erano più sicuri: potevano anche eseguire un aborto per motivi embriopatologici, così come sarebbe dovuto accadere nel caso di Izabela. In seguito

a quanto accaduto, il movimento di protesta dello Sciopero delle donne ritrova un po’ della propria compattezza e si rimette in marcia dietro lo slogan: Ani jednej więcej (Non una di più).

Il motto riprende quello coniato nel 1995 dalla poetessa e attivista messicana Susana Chávez Castillo dopo i numerosi femminicidi avvenuti nella sua città, Ciudad Juárez: “Non una donna di meno, non una morte di più”. Castillo stessa, del resto, sarebbe stata uccisa in quel luogo nel 2011 da una banda di criminali. Nel 2016 il nascente movimento argentino, in tributo alla Poetessa, si sarebbe definito “Ni una menos”.

Il 25 gennaio 2022 si registra un secondo decesso che viene fatto risalire alle conseguenze della nuova legge. Il caso di Agnieszka di Częstochowa è diverso nelle premesse da quello di Izabela, che lo aveva preceduto, ma non nella tragica conclusione. La ragazza di trentasette anni, incinta di due gemelli, viene lasciata per una settimana con un feto già morto in grembo, nella speranza di salvare il secondo. L’attesa risulta fatale a entrambi. All’aprile 2022 risale invece l’inizio del processo contro Justyna Wydrźyńska, membro del collettivo proabortista Aborcjabez granic, accusata di aver aiutato un’altra donna ad abortire procurandole delle pillole.

Scrive la “Gazeta Wyborcza” del 28 marzo 2022: «È probabilmente il primo caso di questo genere in Europa, in cui un’attivista di un’organizzazione viene processata per aver deciso di aiutare un’altra donna a interrompere la gravidanza». Wydrźyńska rischia fino a tre anni di carcere per aver violato il punto due dell’articolo 152 del codice penale polacco. D’altro canto, va anche citata la proposta di legge approdata al Parlamento polacco a fine marzo del 2022 firmata da 201 735 persone e rinominata Legalna aborcja bez kompromisów (Aborto legale senza compromessi). La proposta si concentra esclusivamente sul tema dell’aborto, che vorrebbe garantire attraverso il sistema pubblico fino alla dodicesima settimana di gravidanza. Dopo quel termine, l’aborto resterebbe comunque possibile in casi di malformazione del feto, violenza, pericolo di vita o della salute per la partoriente

Aborto senza frontiere, Alessandro Ajres, Rosenberg&Sellier, 208 pagine, 16 euro

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