Una scrittura indecifrabile nel cuore di un parco rigoglioso, situato a Giarre (Catania). L’opera Compito #1 di Adrian Paci, noto artista albanese che da tempo vive a Milano e ha ormai esposto in tutte le principali rassegne artistiche del mondo, si presenta come un codice da decifrare, una formula segreta, un messaggio criptato capace al contempo di dialogare con la natura e di sfidare gli uomini, di comunicare senza dire, di imporsi senza imporre né un senso né, trattandosi di un mosaico a pavimento, una direzione di percorrenza.
È un’abilità concessa a pochi, quella di creare un linguaggio averbale eppure eloquente. Peraltro, Paci questi segni non li ha davvero inventati: piuttosto li ha rigenerati, posizionando in un contesto espositivo i tratti enigmatici dei quaderni di Maurizio, un soggetto problematico che Paci ha conosciuto nel 2017 nella Comunità di Sant’Egidio.
Abbiamo incontrato l’artista a Radicepura, lo straordinario Parco Botanico di Giarre (Catania) voluto dalla famiglia Faro, dove da anni si tiene una Biennale del giardino mediterraneo, il Radicepura Garden Festival (la prossima edizione è prevista per maggio 2023), e gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua opera: un ricamo su mosaico di centoquaranta metri quadrati in cui le tessere sono di pietra lavica, con riferimento a quel vicino Etna che periodicamente fa piovere cenere su questo paradiso in terra (siciliana).
Come ha conosciuto la famiglia Faro e il parco Radicepura?
«Sono stato invitato nel 2018 in occasione del Radicepura Garden festival, ho ammirato il posto e il festival e sono rimasto per una settimana, in modo da conoscere meglio gli organizzatori e la famiglia faro. Lavoravo già sul rapporto con il mondo vegetale, per una ricerca sfociata poi in Il silenzio delle piante (2019). Quindi la dimensione naturale mi interessava. Successivamente Mario Faro, ideatore del Festival, mi è venuto a trovare varie volte nel mio studio di Milano. Io stavo lavorando a Rudere, la mia opera posta a CityLife, e dato che avevo in mente altre varianti di quell’opera pensavo di riproporne una a Giarre. Tuttavia ciò non è stato possibile per la difficoltà di avere il permesso di erigere un piccolo edificio su un terreno non edificabile».
Quindi ha adottato un’opera che era comunque parte di una serie già esistente. Come è nata la serie Compito?
«Come spesso nascono i miei lavori; da un incontro iniziale, che genera una scintilla, da qualcosa che mi perseguita, mi rimane in testa perché genera possibilità. Durante un incontro con un gruppo di disabili della Comunità di Sant’Egidio sono stato colpito dai quaderni di Maurizio, un diario inintelligibile ma affascinante. Lui non mi ha mai parlato, ma quei quaderni, in cui aveva scritto in una lingua tutta sua, sono diventati per me un luogo in cui tornare, qualcosa da contemplare. Andavo a riguardarli spesso, ne ero quasi ossessionato e così ho pensato di tradurre un segno nato con la velocità ossessiva di un automatismo, e messo su un supporto fragile come la carta, nella dimensione durevole del mosaico, in cui la fisicità concreta, tangibile, si abbina al tempo lungo necessario per la sua realizzazione e al tempo storico evocato da una tecnica antica. Ecco, portare quei segni connotati da fragilità e immediatezza in una dimensione storica non vuol dire farne un monumento, qualcosa di evidente, definito; al contrario, i segni restano enigmatici, non confermano mai, ma creano spazi di vibrazione. E dopo sei mosaici free standing per una mostra a Salisburgo, i segni sono stati replicati anche su tappeti e ceramiche. Ogni passaggio tra differenti supporti, mani e materiali, è come se arricchisse quei segni, li risignificasse, li stratificasse per renderli tratti che non definiscono ma esplorano, pongono domande. Le varie versioni tuttavia differiscono per cromia: i mosaici austriaci erano tutti nei toni del bianco e ocra, per esempio. A Radicepure ho voluto uno sfondo scuro con scritte bianche, come un negativo della pagina del quaderno»
Lei ha già usato la tecnica del mosaico in precedenza (come in La gloria vostra fu sole, a Milano nel 2014): in che cosa la affascina?
«Nasco come pittore e ho avuto una formazione accademica in Albania che non arrivava al ventesimo secolo, perché volutamente escludeva l’arte ritenuta “borghese”. Il mio battesimo nell’arte contemporanea è avvenuto con i video e questa apertura e trasformazione che ho vissuto negli anni Novanta, questo passaggio da una pratica pittorica classica e astratta al riappropriarsi del soggetto nella narrazione, per l’elemento figurativo che è intrinseco al video, ha spalancato le porte della mia creatività a qualunque mezzo di espressione. Questo non ha implicato una prova di virtuosismo, o un compiacimento nel saltare da un linguaggio all’altro: semplicemente, ho cercato di individuare quali suggestioni un mezzo mi portasse. E quando ho iniziato a realizzare mosaici, il confronto tra l’immediatezza del soggetto che trattavo e la memoria di una pratica arcaica ha avuto il potere di riattivare il linguaggio musivo, apparentemente datato, di renderlo inedito. Per questo motivo, ritengo che la dimensione del passato non vada mai archiviata come obsoleta. Anzi, a volte è proprio ciò che è remoto a presentare una freschezza che il presente ha perso. Non esistono tecniche obsolete, ma possibilità in attesa».
La pretesa di spiegare un testo, di comprenderne il significato è un esercizio di potere. Vuoi dire stabilire quale sia il significato dominante, il contenuto che ognuno deve dedurne. Utilizzando un alfabeto immaginario, coniato da un disabile, lei ha voluto porsi dalla parte degli emarginati, rifiutare la logica dei potenti?
«Al di là di chi stabilisce il senso di qualcosa, chi lo subisce e del potere tra di loro, penso che vi sia un rapporto di potere tra un bisogno espressivo e un mezzo espressivo. Ogni volta che cerco di dare forma al mio bisogno tramite un linguaggio, più entro nel processo e più capisco i limiti di quel linguaggio, intraprendo una lotta con esso, cerco di forzarne i limiti. Venendo dalla pittura, capisco bene la profondità di un linguaggio averbale, che gioca su tratti, sfumature, sulla texture, in una dimensione implicita che sfugge alla definizione. Maurizio e io ci siamo calati dentro a questa dimensione ulteriore e indefinibile, che in teoria è un linguaggio, che funziona come una lingua, con una sua specificità di segni in riga, intervallato da spazi, come le parole, ma che non si esaurisce in un concetto, e piuttosto va contemplata come un elemento naturale. Quando guardi una montagna, non ti chiedi cosa significa, la guardi e basta; così va fatto di fronte alla sua scrittura. Va vista come un paesaggio. A differenza di altri lavori della stessa serie, però, a Radicepura ho voluto lasciare la data del 15 ottobre presa da una pagina del quaderno di Maurizio, perché è come se quella cifra numerica desse alle sue tracce un aggancio reale, e suscitasse un gioco tra dati evidenti, come quel preciso giorno di autunno, e tutto il resto che sfugge, suscitando tensione tra segni indecifrabili ed elementi espliciti».
Il titolo dell’opera è Compito #1 perché lei ha sentito Maurizio dire che scrivere quella specie di diario era «il suo compito». Anche l’artista, quindi, ha un compito?
«Non so se ce l’ha, e non amo considerare il pubblico come qualcuno che riceve da me una dichiarazione, una verità. Ma credo che la domanda valga per chiunque si esprima, sia che lo faccia in risposta a un bisogno, a un’urgenza o a una responsabilità. Esprimersi è sempre un atto che facciamo per noi stessi ed è presuntuoso pensare che questo impulso egoistico possa cambiare il mondo. D’altra parte, se ti esprimi perché senti la mancanza di quello che vuoi creare, questa tua creazione, colmando un vuoto, può avere un impatto sulla visione degli altri, che si tratti di due, dieci o cento persone. Però non ci si può proporre questo obiettivo come compito: la trasformazione avviene tramite domande che pongo a me prima di tutto, come forma di dialogo interiore che è anche sociale nel momento in cui dentro di me porto una rete di relazioni e di esperienze, una piccola comunità. In realtà, insomma, la partecipazione degli altri avviene già quando formulo la domanda, che contiene un’apertura, una tensione, si offre all’incontro».
C’è un linguaggio che sento come più congeniale?
«Mi ritengo un pittore che fa altre cose. Nelle altre discipline sono un amatore che sente la necessità di usare altre tecniche: così facendo apro quello che faccio ad altre idee e apporti. Ogni linguaggio entra nella creazione con una sua specificità e ricchezza, come un disturbatore, che mi fa uscire dalla mia zona di comfort e alla fine costituisce un arricchimento del lavoro stesso. Nella mia pratica ci sono intuizioni che nascono da incontro con qualcosa che non è mio, da un richiamo ad altre tecniche, altri sguardi, altre mani, e così dentro il momento preciso della prima intuizione si crea una vibrazione data dai vari contributi che vi si sono aggiunti man mano».
Forse, dato che si parla di un’opera situata in un parco, sembra di sentire un giardiniere, qualcuno le cui creazioni germinano da una pluralità di apporti.
«Sì, credo che l’arte debba essere generativa e fornire stimoli, interpretazioni, emozioni. Non a caso, anche se non c’è un artista in particolare che ammiro, penso che il più grande di tutti sia stato Leonardo da Vinci: a oltre cinquecento anni dalla sua morte i suoi lavori continuano a generare domande».