I negoziati a Sharm Basta scorciatoie: il “Loss and damage” deve essere a fondo perduto

Ogni proposta diversa dai risarcimenti climatici per i Paesi più poveri - come quella della Germania, fondata sull’erogazione di prestiti - è un passo nella direzione opposta alla soluzione. Ben venga uno “scudo globale”, ma che sia complementare - e non alternativo - al meccanismo attualmente al centro dei negoziati della Cop27

Una foto scattata alla Cop27 (AP Photo/LaPresse)

Affrontare la crisi climatica è soprattutto un tema di risorse finanziarie. Come ha dichiarato John Kerry, inviato speciale degli Stati Uniti per il clima, solo gli Usa dovrebbero spendere tra i duemilacinquecento e i quattromila miliardi di dollari ogni anno per i prossimi trent’anni per portare a termine la transizione energetica e sperare di contenere l’aumento della temperatura globale entro 1.5 °C. Ma accanto alle risorse economiche necessarie per la mitigazione (gli investimenti sulle energie rinnovabili, ad esempio) e l’adattamento (gli strumenti per prepararci per tempo ai prossimi eventi estremi), c’è un ulteriore punto che non può più essere ignorato: la riparazione dei danni e delle perdite.

Ecco perché, allora, la crisi climatica diventa inevitabilmente anche un tema di giustizia finanziaria: non tutti i Paesi – e specialmente quelli che stanno subendo le conseguenze più disastrose dei cambiamenti del clima – hanno uguali possibilità economiche per fare fronte ai disastri già avvenuti o che si verificheranno con estrema probabilità. Il tema è sul tavolo da anni, ma è diventato centrale nel programma della Cop27, che si sta svolgendo in Egitto, a Sharm el-Sheikh, fino al 18 novembre. 

A essere entrato nell’agenda, ed è la prima volta che accade nella storia delle Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, è il meccanismo del “Loss and Damage”. Su questo fronte la Germania ha proposto un nuovo sistema, chiamato “Global shield against climate risks” – Scudo globale contro i rischi climatici, che verrà illustrato nel dettaglio il 14 novembre.

Il risarcimento climatico
Da quando è diventato evidente che alcuni impatti negativi della crisi climatica non potevano più essere evitati, è apparso altrettanto chiaro che sarebbero occorse ingenti risorse finanziarie per affrontare le perdite e i danni annessi – loss and damage, appunto. La causa di questi ultimi possono essere sia eventi estremi, come siccità e alluvioni, sia a lenta insorgenza, come l’innalzamento del livello del mare, l’aumento delle temperature, la perdita della biodiversità, il ritiro dei ghiacciai e via dicendo. 

Ma ecco il punto cruciale: se tali perdite e danni adesso colpiscono soprattutto i Paesi più poveri e vulnerabili, ma sono associati a una crisi climatica che è causata in maggiore misura dagli Stati più ricchi e industrializzati, chi deve (e può) pagare il conto? Il meccanismo internazionale del “Loss and damage” è una risposta diplomatica a questa domanda. 

Promosso dalla Cop19 del 2013 a Varsavia (il nome completo è Warsaw international mechanism for loss and damage) e poi riconosciuto nell’Accordo di Parigi, il sistema è nato con l’esplicito scopo di affrontare le perdite e i danni associati all’impatto della crisi climatica nei Paesi in via di sviluppo con tre modalità principali: migliorare la gestione del rischio, rafforzare la cooperazione internazionale e promuovere azioni di supporto, inclusi finanziamenti. La Commissione esecutiva del Warsaw international mechanism for loss and damage si è concentrata molto sui primi due punti, mentre il terzo è stato sostanzialmente tralasciato.

“Loss and damage” e finanza climatica
«Spesso si fa confusione tra finanza climatica e “Loss and damage”, perché in entrambi i casi si ha a che fare con i soldi, ma si tratta in realtà di temi negoziati in sessioni diverse», spiega Marirosa Iannelli, coordinatrice Clima e advocacy dell’Italian climate network e presidente del Water grabbing observatory. La finanza climatica si riferisce ai fondi destinati alla mitigazione e all’adattamento, quindi che vanno usati ex ante: prima che il disastro avvenga, per prevenirlo. I fondi del “Loss and damage”, invece, servono ex post, in via emergenziale, quando le perdite e i danni causati da un evento estremo si sono già verificati. 

Quando alla Cop15 si era deciso che gli Stati più sviluppati avrebbero fornito cento miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo per sostenerli nel raggiungimento degli obiettivi sul clima, si trattava di fondi per la finanza climatica (per altro l’obiettivo è stato disatteso). Analogamente, durante la Cop26 dello scorso anno è stata lanciata la Glasgow financial alliance for net zero, una coalizione formata da centinaia di colossi della finanza globale impegnati ad accelerare la decarbonizzazione del sistema economico: al di là del fatto che l’alleanza è stata giudicata da subito vaga e irrealistica (avrebbe dovuto mobilitare centotrenta trilioni di dollari, sei volte il Pil degli Stati Uniti) e che ha perso pezzi nel corso dei mesi, anche in questo caso si trattava comunque di fondi per la finanza climatica. Il conto del “Loss and damage”, insomma, al momento è scoperto.

“Loss and damage”: chi mette i soldi?
Di fatto, i Paesi vulnerabili e in via di sviluppo avrebbero da subito voluto la creazione di un meccanismo compensativo-assicurativo per sostenere i costi dell’impatto irreversibile della crisi climatica sui loro territori e sulle loro comunità. I Paesi più sviluppati, invece, si sono dimostrati tendenzialmente ostili all’idea di ammettere le proprie responsabilità e di fornire un risarcimento economico esplicitamente connesso a queste. Trovare un accordo tra le due posizioni non è facile né è scontato capire da chi dovrebbero arrivare i fondi per il capitolo perdite e danni: dagli Stati più sviluppati, dalle multinazionali energetiche, dalle banche globali? 

«Ci sono vari punti di negoziazione tra le parti su cui storicamente non si trova un accordo», prosegue Iannelli. «Ora che la Cop è iniziata da qualche giorno è chiaro che l’aria che tira va in direzione del bisogno di creare un fondo ad hoc multilaterale per le perdite e i danni, che al momento non esiste». Soprattutto i Paesi più vulnerabili ci tengono a sottolineare che questo fondo per il “Loss and damage” dovrebbe essere ben differenziato da quelli destinati a mitigazione e adattamento. 

Inoltre, i finanziamenti non dovrebbero essere soggetti a eccessivi meccanismi di monitoraggio e valutazione e i fondi dovrebbero essere il più possibile pubblici e accessibili a tutti i Paesi. I negoziati sono in corso e l’obiettivo della Cop27 è appunto riuscire a definire ufficialmente non solo un fondo per il “Loss and damage”, ma anche una procedura condivisa di gestione e di assegnazione dei soldi. Per il momento si è perlomeno decisa una deadline: il sistema dovrà essere operativo dal 2024.

La proposta del G7 e dei V20
Parlando di fondi per finanza climatica e “Loss and damage”, la Germania – come anticipato all’inizio – ha proposto di supportare il ricorso a un altro strumento: il “Global shield against climate risks”. Questo “scudo globale” è stato messo a punto unanimemente dai Paesi del G7, sotto la presidenza tedesca, in accordo con i Paesi del V20, associazione che riunisce i cinquantotto Stati del mondo più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Il cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato che la Germania destinerà a questo “scudo” centosettanta milioni di euro: più che un’alternativa, però, il Global Shield dovrebbe essere inteso come una proposta complementare al fondo per il “Loss and damage”

In base alle informazioni già disponibili, infatti, sappiamo che lo “scudo” riunirà sotto di sé attività relative sia alla prevenzione del rischio, sia alla finanza climatica. Il punto di partenza sono i piani di emergenza elaborati da ciascun Paese sulla base dei propri rischi climatici e delle proprie esigenze. Da qui l’obiettivo è escogitare, nell’ambito dello “scudo globale”, una serie di strumenti per fornire rapidamente e facilmente sostegno nel momento in cui si verifica un danno legato alla crisi climatica. Tra questi strumenti vengono citati le assicurazioni contro eventi rari ma potenzialmente devastanti e i prestiti delle banche multilaterali di sviluppo, cioè quelle istituzioni sovranazionali (come la Banca mondiale) create dagli Stati sovrani principalmente per promuovere lo sviluppo economico. Tali prestiti verrebbero erogati direttamente alla comunità che ne ha bisogno, in caso di emergenza. 

Proprio l’aspetto del prestito è però stato oggetto di critiche, anche se la Germania ha annunciato l’intenzione di proporre una clausola specifica, chiamata “Climate disaster clause”, che eviti l’aggiunta di interessi al finanziamento. «Il “Loss and damage” non dovrebbe essere un prestito, ma a fondo perduto», sottolinea Iannelli. 

«Non si deve ricreare un meccanismo di dipendenza dal debito. Eticamente, il problema è che manca il riconoscimento del principio della responsabilità da parte degli Stati che sono storicamente maggiormente responsabili delle emissioni: è un grande tema globale che sta emergendo in maniera abbastanza forte. La speranza è di uscire da questa Cop27 almeno con l’istituzione di un fondo per le perdite e i danni e che poi, tra quest’anno e l’anno prossimo, si inizi a parlare di quanti soldi destinarvi. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono molto ostili a questo fondo, e l’Unione europea segue questa linea. L’Italia per ora non si pronuncia in merito». 

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