Cop27, che si apre il 6 novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, sarà la Cop delle diseguaglianze, dei risarcimenti climatici, della transizione energetica alla prova della doppia crisi di inflazione e guerra, e ovviamente sarà la Cop dell’Africa. È la ventisettesima «conferenza delle parti» organizzata dall’Onu per coordinare gli sforzi globali sulla lotta ai cambiamenti climatici: le due settimane di negoziato cambiano sede ogni anno (l’ultima Cop26 fu a Glasgow, nel Regno Unito) e sono il ciclico momento cruciale in cui misurare e costruire il progresso verso un futuro nel quale gli impatti della crisi climatica causata da emissioni di gas serra e dai combustibili fossili vengano ridotti e mitigati.
Non tutte le Cop sono uguali, per importanza e ambizione. La prima fu a Berlino, nel 1995: c’era Angela Merkel ministra dell’Ambiente a guidare i lavori. Quella più significativa fu Cop21, a Parigi, nel 2015: da lì uscì l’accordo globale per contenere l’aumento delle temperature sotto i 2°C e il più possibile vicino a 1,5°C (e oggi siamo già a 1,2°C). Sembrava impossibile arrivare a quel risultato, che oggi è il cuore del processo, quasi una «Costituzione» della Terra.
Cop26 era la prima durante la pandemia, c’erano da rinnovare gli sforzi per la decarbonizzazione, a serio rischio deragliamento, e rispondere all’enorme pressione di società civile e attivismo nata con i movimenti per il clima. Il risultato fu il Glasgow climate pact, il primo documento ufficiale Onu in cui non si parlasse non solo degli effetti (aumento delle temperature) ma anche delle cause (carbone e altri combustibili fossili) della crisi climatica.
Il primo grande tema di Cop27 consisterà nel ricomporre la frattura che si sta spalancando tra i Paesi industrializzati – responsabili per il novanta per cento delle emissioni storiche – e il resto del mondo, che si trova invece alla ricerca di un equilibrio delicato tra sviluppo, una transizione da fare in fretta e gli effetti già concreti dei cambiamenti climatici. Il processo di lotta al “climate change” ha bisogno di cooperazione, la cooperazione richiede fiducia e questa frattura sta disperdendo il capitale di fiducia accumulato con l’accordo di Parigi.
I danni della crisi climatica sono la storia di ogni economia africana, e per questo è importante che la Cop su questo tema si tenga nel continente, ma il Paese simbolo di questa frattura è il Pakistan, che nel 2021 si è trovato da solo sulla prima linea del disastro, con una stagione monsonica fuori scala, che ha coperto un terzo del Paese d’acqua, fatto più di millecinquecento morti e portato un costo da quaranta miliardi di dollari. La domanda a cui i leader mondiali devono rispondere a Cop27 è: chi li paga, questi danni? Qualcuno li deve pagare? La responsabilità storica si traduce in responsabilità finanziaria? È per questo motivo che una figura centrale di tutto il vertice sarà Sherry Rehman, ministra dei Cambiamenti climatici del Pakistan e negoziatrice di riferimento del G77, blocco di centotrentaquattro Paesi in via di sviluppo che stanno portando avanti la causa del «loss and damage», danni e perdite, la grande battaglia dei risarcimenti climatici.
Spingere i Paesi più ricchi ad accettare di contribuire finanziariamente a ricostruire e riparare i danni umani, infrastrutturali ed economici subiti da Stati che hanno una quota minima di emissioni e quindi di responsabilità, sembrava una battaglia diplomatica velleitaria, impossibile, impensabile, e invece l’idea sta diventando sempre più concreta: è passata da bandiera ideale da sventolare a prospettiva con la quale Stati Uniti e Unione europea dovranno confrontarsi nei prossimi anni, con un conto stimato in oltre cinquecento miliardi di dollari all’anno.
Alla Cop26 di Glasgow c’era stato un passaggio decisivo e sottovalutato nel dibattito pubblico: il principio dei risarcimenti climatici è stato accettato ed è stata creata una linea di lavoro diplomatica. Siamo ancora lontani dalla strutturazione di un flusso di fondi vero e proprio, ma avvicinarsi a quel punto e capire come concretamente come potrebbe funzionare è uno degli obiettivi di Cop27. Uno dei temi sarà capire dove trovare le risorse e come distribuirle, la proposta operativa più spendibile del blocco dei Paesi vulnerabili è una tassa globale sugli extraprofitti delle aziende energetiche.
«Unlock the finance». Sbloccare la finanza. Non solo per il loss and damage, ma anche per la transizione energetica dei Paesi che non hanno le risorse per farla da soli e per l’adattamento delle infrastrutture. È tutto collegato: meno aiutiamo gli Stati vulnerabili a prevenire (adattandosi) e più salirà il conto di danni e perdite. La transizione non può essere affare solo delle economie avanzate, ma le altre oggi si sentono abbandonate politicamente e finanziariamente. Come ha detto, con una punta di brutalità, Avinash Persaud, inviato speciale della prima ministra di Barbados Mia Mottley, «la questione oggi è capire se vogliamo pagare il medico o il becchino».
Mottley sarà un’altra figura chiave di questo negoziato su come indirizzare i flussi lì dove i flussi servono, nei tempi in cui servono. Già Cop26 aveva mostrato come uno dei punti più problematici del negoziato globale siano i fondi finanziari, pubblici e privati. Su questi ultimi, la conferenza delle parti dovrà fare una sorta di reality check: a Glasgow la finanza privata globale aveva preso impegni ambiziosi, ma gli ultimi dodici mesi sono stati una perdita di credibilità continua per la capacità di banche e istituti finanziari di tenere fede a queste promesse. Un altro degli argomenti della conferenza sarà capire con quali strumenti si può misurare il contributo della finanza privata, che dall’accordo di Parigi a oggi ha indirizzato quattromilaseicento miliardi di dollari verso progetti nocivi per il clima e che ha visto andare in crisi tutto il modello Esg, su cui è strutturata la transizione verso la sostenibilità.
L’ultimo tema sono proprio i combustibili fossili: quale ruolo avranno nella transizione? Il patto per il clima di Glasgow aveva parlato di phase-down del carbone e di fine ai sussidi pubblici alle altre fonti tossiche come petrolio e gas, era un risultato fragile, che non può essere dato per scontato e che va comunque protetto, visto che anche le economie avanzate (Italia compresa) stanno tornando al carbone nell’attuale crisi del gas e il flusso di sussidi pubblici non accennare a rallentare. Il rischio è una risposta alla crisi energetica basata sui combustibili fossili: sarebbe una follia climatica e finanziaria.
Nel suo World energy outlook 2022 l’Agenzia internazionale dell’energia ne ha previsto il picco già nel 2025, ha dichiarato che il gas non può più essere considerato fonte di transizione e prevede che guerra e inflazione possono accelerare la decarbonizzazione. La logica del mondo va in quella direzione, ma il collo di bottiglia è la volontà politica di abbandonare lo status quo: da Sharm non ci si aspettano risultati vistosi, come trattati o nuovi patti, ma sarà comunque importante mostrare come questa volontà esista ancora e che i centonovantatre Paesi della convenzione Onu sui cambiamenti climatici sono ancora in grado di lavorare insieme per l’interesse comune biologico sulla Terra, come successo a Parigi nel 2015.
Sarà difficile, perché i fattori in gioco sono tanti, la società civile sarà quasi del tutto assente e non potrà fare la solita pressione dall’esterno, ci sono eventi politici che possono indirizzare il vertice, come le elezioni di midterm negli Stati Uniti (che cadono a metà Cop) o il G20 di Bali (verso gli ultimi giorni). Il processo è in corso e le emissioni stanno lentamente rallentando, ma è anche molto fragile. Il negoziato Onu di Sharm ha il compito di proteggerlo e mostrare che questo tipo di cooperazione multilaterale ha ancora un valore, anche perché alternative non ce ne sono.