La Cop27, la conferenza sul clima delle Nazioni unite in Egitto, è iniziata con aspettative ben più basse non solo di quella del 2015, in cui si negoziò il grande accordo di Parigi sulle emissioni, ma anche dell’edizione di Glasgow del 2021. Eppure, lunedì 8 novembre è stato presentato un programma di notevole importanza, benché sia stato un po’ messo in ombra dai vari discorsi dei leader dei Paesi partecipanti (incluso quello di Giorgia Meloni) e dalle tematiche sui diritti umani in Egitto.
António Guterres, segretario generale delle Nazioni unite, ha annunciato infatti un piano per espandere a livello globale l’accesso ai cosiddetti “sistemi di allerta precoce” (early warning systems): servono ad avvertire in anticipo la popolazione dell’arrivo di eventi meteorologici estremi come uragani, alluvioni e tempeste di freddo (conseguenze della crisi climatica), in modo da ridurre il numero di vittime e i danni materiali.
Il merito è tutto della tecnologia e dei sistemi di monitoraggio avanzati, che purtroppo non sono a disposizione di tutti gli Stati (soprattutto di quelli più poveri e, conseguentemente, più minacciati dall’emergenza climatica). L’allerta precoce esiste anche per i terremoti: sfrutta la velocità di propagazione delle onde sismiche per avvertire la popolazione con anticipo prima dell’arrivo della scossa più violenta.
L’Executive action plan for the early warnings for all initiative – questo il nome del piano presentato in Egitto – consisterà inizialmente in investimenti da 3,1 miliardi di dollari tra il 2023 e il 2027. Guterres ne ha sottolineato non soltanto i benefici umanitari ma anche quelli economici, per la salvaguardia delle infrastrutture e dei siti produttivi, così da stimolare la partecipazione all’iniziativa del settore privato. Per le compagnie assicurative, ad esempio, valutare l’esposizione al rischio climatico degli asset in cui hanno investito sta diventando una necessità.
«Una copertura universale di allerta precoce può salvare vite umane e offrire enormi vantaggi finanziari», ha dichiarato appunto il segretario generale dell’Onu. «Appena ventiquattro ore di preavviso di un evento pericoloso imminente possono ridurre i danni del trenta per cento». E la spesa da sostenere per dotare ogni Paese di questi sistemi è bassa: poco più di tre miliardi in totale, vale a dire circa 50 centesimi a persona.
Un terzo della popolazione globale, però, non è coperto da sistemi di early warning, che si sono dimostrati incredibilmente efficaci nel contenimento dei disastri naturali. La crisi climatica sta avanzando rapidamente: non va solo mitigata, bisogna saperci convivere e adattarsi. Nel maggio 2020 hanno permesso al Bangladesh – un episodio preso a modello dall’Organizzazione meteorologica mondiale – di evacuare ben due milioni di persone mentre il ciclone Amphan si avvicinava al Paese. L’allerta precoce ha limitato il numero delle vittime a settantadue e ha permesso alle persone di mettere al riparo gli animali da allevamento, che rappresentano una fonte di sostentamento cruciale per molte famiglie nelle zone rurali.
«Le comunità vulnerabili negli hotspot climatici vengono colte alla sprovvista da disastri climatici a cascata, senza alcuno strumento di allerta preventiva», ha spiegato Guterres. «Le persone in Africa, Asia meridionale, America meridionale e centrale e gli abitanti dei piccoli stati insulari hanno probabilità quindici volte maggiori di morire a causa dei disastri climatici. Questi disastri causano trasferimenti di persone tre volte superiori a quello delle guerre. E la situazione sta peggiorando».
Dagli anni Settanta gli eventi meteorologici estremi sono quintuplicati anche a causa dei cambiamenti climatici indotti dalle attività antropiche. Parallelamente, i sistemi di early warning hanno aiutato a ridurre le morti di oltre il settantacinque per cento, dando a uomini e donne il tempo di fuggire o di prepararsi, e ai governi di mobilitare gli aiuti.
In Uganda oltre il sessanta per cento della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza, ma molte stazioni meteorologiche – che permettono di monitorare gli eventi potenzialmente estremi, anche facendo ricorso a modelli predittivi, e di prendere contromisure – sono state danneggiate dalla guerra o trascurate per assenza di manutenzione. In Cambogia nel 2013 più di un milione e mezzo di persone è stato colpito da inondazioni, con danni per trecentosessantacinque milioni di dollari; nel 2016 il numero dei civili colpiti ha superato i 2,5 milioni, avverte l’Onu.
Come riconosciuto da Guterres, benché i sistemi di allerta precoce siano molto validi e relativamente economici, le comunità povere e quindi maggiormente vulnerabili «non hanno modo di sapere che sta per arrivare un meteo pericoloso» perché la copertura infrastrutturale delle regioni in cui vivono, anche per quanto riguarda le telecomunicazioni, è scarsa. Di conseguenza, i Paesi con una limitata copertura di allerta precoce hanno una mortalità per catastrofi otto volte superiore a quella dei paesi con una copertura elevata.
Il piano presentato all’inizio della Cop27 dovrebbe servire proprio a ridurre questo divario. Secondo la Global commission on adaptation, istituita nel 2018 dall’allora segretario dell’Onu Ban Ki-moon, già con una spesa di ottocento milioni di dollari per i sistemi di early warning nelle nazioni in via di sviluppo si eviterebbero perdite economiche dai tre ai sedici miliardi all’anno.
Più l’allerta è precoce, ovviamente, e più grandi sono i benefici. Un preavviso di due o tre giorni consente al messaggio di diffondersi con maggiore capillarità, attraverso le televisioni, le radio o porta a porta. Anche l’attendibilità e la responsabilità delle istituzioni, però, sono fondamentali: uno studio del 2018 ha evidenziato appunto una relazione tra la fiducia dei cittadini nell’apparato amministrativo e la disponibilità a evacuare le proprie case quando vengono avvertiti di un evento catastrofico imminente.