L’altro giorno ho rivisto The Social Network, uscito nel 2010 e ancora insuperato come più bel film del ventunesimo secolo, apologo d’un sociopatico dal valore di mercato in continuo aggiornamento: la sceneggiatura finiva con «Facebook è attualmente quotata quindici miliardi di dollari»; nel film, alle immagini di Mark Zuckerberg che riaggiorna la pagina per vedere se la ex fidanzata ha accettato la sua richiesta di amicizia, si sovrappone il cartello: 25 miliardi di dollari; oggi, vassape’.
Perché non c’è stata una mitopoiesi di Jack Dorsey (quello che ha fatto Twitter) o di Elon Musk (quello che se l’è comprata di recente)? Perché nessuno ha imbastito un capolavoro su di loro? Perché Facebook è stato il primo approccio di massa ai social, e tutti gli altri erano troppo presto o troppo tardi o troppo di nicchia?
E quelle cifre, quelle del decennio scorso ma pure quelle attuali, come le calcoli? Quanto valgono i fatti di miliardi di persone che sono ben liete d’avere un posto dove tenere gratis le foto di famiglia, gratis le idee politiche, gratis gli impegni della giornata?
«Gratis» è, non serve un dottorato in sociologia per capirlo, la chiave. In The Social Network il giovane sociopatico era ossessionato dalla coolness: per essere cool, Facebook non doveva avere la pubblicità. Ma come guadagni, in un’epoca in cui quasi nessuno è più disposto a pagare quasi niente, se il consumatore con pretese di gratuità non lo vendi agli inserzionisti?
Oggi c’è pubblicità ovunque – su Facebook, su Instagram, su Twitter; su TikTok, persino, nonostante siano cinesi – ed è un sollievo: oggi che tutti usiamo i social network per vendere agli altri qualcosa, almeno quella degli inserzionisti è pubblicità dichiarata.
L’ossessione per la coolness è dunque, in una prima fase, scivolata in ossessione per la gratuità: «se è gratis, la merce sei tu» è diventata la frase che le persone dicono sentendosi intelligenti e sembrando in realtà il calendario di Frate Indovino, la nuova «il trasloco è il terzo evento più traumatico che possa capitarti». Negli ultimi anni, però, l’ossessione è slittata di nuovo: sui social network dobbiamo trovare la verità.
La sovrapposizione degli anni di Trump e di quelli della pandemia è stata letale per chi ambiva all’erklären e si è ritrovato con gli avvisi di sistema su come informarsi correttamente sui vaccini. Ovviamente gli avvisi li gestisce un algoritmo californiano, la cui ontologia è la stolidità: se in una storia Instagram date a qualcuna della vacca, esso si sente intelligentissimo percependo la radice di «vaccino» e mettendo quindi il suo bravo avviso che invita a informarsi sul Covid.
Questo tweet non dice la verità, avvisava pre-Musk l’algoritmo illudendosi di saperla riconoscere, la verità, se qualcuno scriveva che Biden si era arrubbato le elezioni del 2020: erano i modi goffi in cui i miliardari sociopatici di quel pezzettino di California rispondevano alle accuse di disinformazione. Mai dicendo «mica è colpa nostra se avete tirato su un pianeta di imbecilli scolarizzati, incapaci di distinguere una puttanata da una storia verosimile».
Mettendoci delle toppe che c’illudessero che i posti che guardavamo più a lungo dei giornali, dei libri, della tv, che quei posti su cui leggevamo scemenze mentre eravamo in bagno o alla fermata dell’autobus, che quei posti lì contenessero la verità, tutta la verità, la verificata verità.
Naturalmente la verità non esiste. Non perché: la postverità. Ma perché: Rashomon. Il medico che ha dei dubbi sui vaccini viene cancellato dagli algoritmi che non possono alienarsi quella maggioranza feticista della verità condivisa, quella maggioranza che dice assurdità quali «io credo nella scienza», come la scienza fosse un atto di fede e non una serie di tentativi che correggono gli errori precedenti, come la storia della medicina non fosse fatta di cose che credevamo facessero bene e poi invece no, come il parere di uno che compiendo gli stessi studi arriva a una conclusione differente potesse essere trattato come quello di Vongola75.
Ma certo non si può pensare che un algoritmo sappia distinguere il primario eterodosso dal demente cui nel gruppo WhatsApp della classe del figlio hanno detto che i vaccini rendono persino più autistici delle madri frigorifero. E d’altra parte la per molti anni accreditatissima teoria delle madri frigorifero non veniva da Brocco81, ma da un all’epoca stimato psicologo, sui cui studi nessun social aveva apposto la pecetta «sono tutte stronzate». Per decenni la verità è stata che Bettelheim era un genio, e adesso la verità è che era un cialtrone: ve l’avevo detto che la verità non esiste.
E quindi, quando arriva Elon Musk e decide che il bollino che conferma la verifica, da parte di Twitter, della tua identità, l’ambitissimo bollino che faceva sentire importanti gli aspiranti qualcosa, quel bollino lì ora è in vendita, e io domani posso con otto dollari comprarmi la verifica che dice che sono in effetti Guaia Sorcioni, anzi Pamela Anderson, anzi Zadie Smith, quando Elon fa implodere l’illusione della verità accertata e della gratuità garantita su quel giocattolone per adulti che è Twitter, per me è una buona notizia.
Non solo perché ne nascono casi che fanno molto ridere: un finto (ma verificato) account Chiquita dichiara che l’azienda ha appena fatto un colpo di stato in Brasile, e il vero (e verificato) account Chiquita si scusa: «Non facciamo colpi di stato dal 1954»; o un finto (ma verificato) account Tesla annuncia lo schianto d’una seconda Tesla sulle Torri gemelle.
Non può che essere una buona notizia quando una beffa offre un osservatorio sulle voragini nell’etica pubblica: quando un account finto (ma verificato) della Eli Lilly twitta che l’insulina d’ora in poi sarà gratuita, e il vero (e verificato) account di Eli Lilly è costretto a smentire, si potrà sperare in un ciccinino d’imbarazzo nel ribadire che gli Stati Uniti sono quel grande paese in cui nel 2022 un diabetico può finire con un arto amputato perché l’insulina è troppo cara? Magari dall’imbarazzo nasce una qualche riforma piccina picciò? Bisogna essere molto impegnati a ritenere Musk il male assoluto, per non ritenerla una buona notizia.
La buona notizia sfugge agli intellettuali americani che lo accusano d’aver minato la credibilità delle informazioni, d’essere un distruttore, senza tenere presente la parte creatrice della distruzione (naturalmente: gli intellettuali americani pensano che Schumpeter sia un pilota di Formula 1).
Se quel che avrà ottenuto Elon Musk sarà che avremo smesso di credere a quel che viene detto su un giocattolone che c’intrattiene nei tempi morti nelle sale d’attesa, avremo smesso di credere ai volontari della gratuità intellettuale, avremo smesso di costruire pagine di giornali attorno a quel che ha twittato Tizio e a quel che gli ha risposto Sempronio, allora Elon Musk bisognerà ringraziarlo.
Se poi, come ha prospettato ieri a dipendenti che non pare aver molta voglia di continuare a stipendiare, dichiarerà bancarotta, e darà inizio a una Lehman dei cuoricini – Zuckerberg ha appena licenziato undicimila persone: una pandemia di declino social, chi ci sperava più – e quel che fino a ieri ci sembrava imprescindibile in un attimo diverrà dinosauro in estinzione, allora io spero che a Musk saremo abbastanza grati da dargli il Nobel per la Pace.