Femminismo metaversoPerché ci indigna più il maschilismo cisgender delle afghane ammazzate

Il movimento per i diritti delle donne è sempre più la caricatura di se stesso. Passato da una dimensione politica a una puramente mediatica, l’unica identità femminile per cui si batte è quella rappresentata, mai quella vissuta

LaPresse

C’è qualcosa di grottesco nella nonchalance con cui tutto l’occidente democratico ha riconsegnato milioni di afghane ai tagliagole talebani, pure giudicando per eccesso di zelo le ostagge il prezzo giusto per la “decisione epocale”, e nell’acribia e nella suscettibilità, che le questioni di genere declinate secondo il canone del sessualmente corretto – tanto impalpabile nella sostanza, quanto implacabile negli effetti – continuano contestualmente ad accendere nel discorso pubblico occidentale.

Da una parte la cancellazione delle donne dalla realtà di una fetta di mondo e la loro segregazione nelle galere dell’islamofascismo, dall’altra un vasto programma di igienizzazione delle dispute e dei conflitti di genere con l’amuchina della cancel culture e le contro-discriminazioni decretate dal tribunale dell’Inquisizione del popolo social indignato.

Visto dall’Italia, questo processo di alienazione ideologica e di isteria opportunistica assume caratteri bizzarri – un mix di intransigenza moralistica oltranzismo esibizionistico – ma probabilmente abbastanza rappresentativi di una tendenza generale.

Però, tra le ore di discussioni e le tonnellate di byte, per stare all’ultimo caso, sulle esternazioni del professor Barbero in tema di spavalderia femminile e le ore di silenzio e i deserti di pagine bianche guadagnate su giornali, tv e social media progressisti dalla normalizzazione talebana a colpi di burqa e di mannaia non c’è solo un’evidente contraddizione. C’è una correlazione più profonda, come tra due sintomi del medesimo male, che è la “disincarnazione” della discussione sulle questioni di genere – comprese quelle LGBT, che ora lasciamo a parte – e l’abbandono del corpo delle donne e dei suoi diritti come centro della riflessione e dell’iniziativa politica femminista, non solo e non necessariamente al femminile.

Il cuore della lotta si è spostato dai temi dell’auto-determinazione a quelli della etero-rappresentazione (cosa si dice delle donne, come si parla di loro, come si rispetta la loro autopercezione e la loro immagine sociale) e quindi è scivolato dalla dimensione propriamente politica a quella puramente mediatica, col risultato che l’unica identità femminile rilevante è quella rappresentata, non quella vissuta. Una deriva ideologica in piena regola, con manifestazioni poliziesche e disarmanti, tra il massimo dell’arroganza e il massimo dell’impotenza, perché se il “mediatico” e il “politico” finiscono per coincidere, le donne invisibili cessano di esistere e l’universo femminile finisce per comporsi solo di avatar digitali.

Un femminismo “metaverso”, che, come il nuovo progetto di Zuckerberg, rappresenta un ecosistema virtuale: non un modo per guardare e cambiare la realtà, ma per surrogarla, adattandola alle esigenze del gestore e non degli utenti. E in questo caso i gestori sono proprio i softwaristi della macchina ideologica del femminismo virtuale, i padroni del vapore della correttezza di genere.

Visto che l’unica legge ferrea della storia è l’eterogenesi dei fini, come Zuckerberg con Facebook non voleva creare una piattaforma totalitaria, ma solo fare quattrini (e forse, come tutti i nerd, fare colpo sulle ragazze), così anche gli amministratori di sistema del femminismo virtuale volevano solo fare del bene (e forse, come tutti gli ideologi, si sono pure convinti di incarnarlo). Ma il dato di fatto è che questo femminismo è diventato solo un teatro di ombre nella caverna dei media di massa.

Tutto ciò spiega la relazione tossica tra il pregiudiziale sospetto di maschilismo cisgender in qualunque deviazione dal codice obbligato di social, giornali e tv e la disponibilità ad accettare la misoginia politica fuori dalle mura protette del bla bla bla mediatico-accademico. La stessa relazione, per intendersi, che porta Michela Murgia a essere insieme paladina dello schwa e simpatizzante di Hamas e a non avvertire alcuna contraddizione tra le due scelte politiche.

Se il femminismo è stata la rivoluzione universalistica più riuscita nel Novecento occidentale e la più radicale negli effetti, trasformando in profondità la struttura stessa della società, a partire dalla famiglia, le sue derive finiscono per sacrificare insieme all’attributo della corporalità anche quello dell’universalità, cioè del riguardare le donne in quanto donne, secondo un principio di uguaglianza prevalente su ogni differenza nazionale, culturale e religiosa.

Una violenza quotidiana, efferata e programmatica contro il corpo delle donne è perpetrata anche al di là dei confini dei paesi islamisti, ma non è al centro di nessuna azione e riflessione politica da questo lato di mondo, in cui il femminismo si è perso per strada la questione del pane e discute animosamente sulla qualità delle brioches. Per fare un esempio pazzesco, quanto a rilevanza e invisibilità, le donne cinesi sono state negli ultimi decenni al centro di un mostruoso esperimento sociale.

Prima costrette agli aborti forzati e alle sterilizzazioni di massa in obbedienza alla politica del figlio unico, poi condannate a aborti selettivi per giocare quell’unica fiche procreativa sul maschile anziché sul femminile (nelle nuove generazioni, ci sono 120 nati maschi ogni 100 nate femmine).

Ora che il regime nazionalcomunista ha deciso il dietro front per contrastare il violento calo demografico (con decine di milioni di feti abortiti e indesiderabili in quanto femminili), si passerà alla restrizione del diritto all’aborto per ragioni “non terapeutiche”, cioè si proseguirà la politica dell’aborto di Stato (imposto) in quella del non aborto di Stato (vietato). Però la cattività delle donne cinesi – uno dei fattori determinanti degli equilibri demografici, economici e politici mondiali dei prossimi decenni – non sembra proprio, diciamo così, al centro delle attenzioni, dei discorsi e degli studi dei fanatici dei gender studies. Non è cattiveria, appunto, è autoreferenzialità.

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